giugno 2005
Caro Gabriele,
gli anni Settanta sono sprofondati anche nelle coscienze
più vigili. E tra noi, che
siamo - per usare le parole
di Primo Levi - un po’ i «salvati» (i «sommersi» quasi nessuno li ricorda più) o i «resistenti» - per usare le
tue - c’è di tutto purtroppo e il peggio non sono solo quelli «di buona famiglia»
passati con i vincitori.
Questi ultimi, soddisfatti per la
pulizia compiuta e per aver cooptato i “migliori”, riescono a tenere sotto scacco
anche molti resistenti. Lo dimostra lo sbando culturale si mille questioni: dal
problema dei precari a quello delle scienze (vedi il risultato del referendum).
Io in particolare ho meno fiducia
di te nella resistenza che
in tanti dicono di fare «a partire da se stessi». Non ce l’ho con te, che hai
usato questa espressione. Però ho visto quanto ambigui sono i «se stessi», sai!
Se non si ristabilisce un «se stessi comune», un sentire soggettivo
diffuso e un linguaggio
comune che permetta di cooperare politicamente al di fuori degli schemi superati
di quegli e di questi anni, si rischia di partire o di stare sempre in
partenza. E questo credo che valga anche in poesia.
Oggi siamo tutti più disponibili ad
ammettere, come anche tu dici, che la propria è «una strada tra le tante». Ed è
vero. Le strade sono tante specie in poesia (io ho parlato addirittura di moltitudine poetante). Ma dove ci portano queste che
percorriamo oggi, magari in solitudine (almeno fino ad anni recenti per me)
o in compagnie fin troppo
leggere di poeti e letterati? Io
ho molti dubbi e scetticismi. Se te
ne stai troppo solo rischi di metterti addosso maschere romantiche da
poeta maledetto o
eccentrico o incompreso. A me fanno ridere. Quando cerchi contatti e confronti,
ti ritrovi in una bolgia di poetanti che al massimo riescono a fare qualcosa di
serio e onesto in circoli asfittici, spesso di amici più concorrenti che
cooperanti.
Sembra che i modi leali e più diretti di
confrontarsi fra quanti scrivono, che in passato hanno avuto grande importanza
(vedi il duello
Fortini-Pasolini, per fare un esempio, che alla mia generazione ha insegnato
molto, o Pasolini-Sanguineti) oggi siano tabù. Si deve essere diplomatici,
disincantati, al massimo spettegolare in segreto? Non credo.
Il conflitto, sale di qualsiasi
democrazia (perché c’è stata anche un po’ di democrazia nelle «patrie
lettere»…), è subito neutralizzato
dai vari Cofferati del mondo letterario. Per non parlare di quel che resta del
mondo politico, il quale poi non è tanto separato né dalla poesia né dalla
cosiddetta «società civile».
Io non so se questo problema ti stia
veramente a cuore e quanto sia possibile confrontarci anche fra noi due al di
là di generici apprezzamenti. Comunque io ci spero. Ti ho fatto una proposta che va in questa
direzione e proseguo ora dicendoti alcune
cose di Parking luna.
Non trovo questa
raccolta molto diversa da "Corpi
franti..." nella sostanza. La tua poesia per me si conferma
fortemente intellettuale, anche se tu neghi di esserlo. Ha la freddezza del
laboratorio scientifico e le
accensioni “oscure”, “ermetiche” di chi si è accostato o ha fatte sue certe
simbologie magiche o forme di religiosità indù. (Ma qui devo essere cauto per
mia ignoranza e solo tu mi potrai dire se e quanto intenso sia stato il tuo
accostamento a culture non occidentali).
Ci trovo anche una tonalità
claustrofobica (La mia casa è chiusa; Bagliore di risacca io tento di scurire/Scavando
gallerie nel fondo del mio pozzo), una certa primordialità visionaria
(BESTIARIO, ma anche: Io ne ho viste di cose che voi umani/ Non potreste neanche
immaginare), una
centralità dell’io che dice
ma in modi impersonali mai confidenziali o colloquiali, una forte letterarietà.
(La tua – non è un’offesa - è una poesia da leggere col dizionario a portata di
mano e con qualche
delusione perché alcuni termini sono inconsueti
e ci vorrebbero dizionari specialistici).
Due cose mi colpiscono di più. Una te
l’ho già fatta notare e ti ha forse irritato, perché l’hai intesa come un’accusa, ma ti ho spiegato che
non lo è. Si tratta del tuo gusto barocco per la parola (dotta, letteraria,
scientifica in particolare), che forse ti fa preferire la descrizione e
l’enumerazione delle immagini invece che la narrazione e ti porta ad usare in
abbondanza nomi e aggettivi
(e pochi verbi e per lo più al participio passato, se non sbaglio). Tutte
scelte sintomatiche. Da capire
approfonditamente. Io non le respingo. Avranno la loro “ragione”. Ma non
l’afferro ancora.
La seconda la faccio in base ai pochi
accenni alle tue esperienza di vita che mi hai riferito. Per me esiste un
contrasto tra le esperienze di giovane che ha vissuto in quartieri di periferia
romana o di militante cane sciolto nei furenti anni Settanta e la sua resa
fortemente letteraria, ma - contraddittoriamente - “non-realistica”.
Per fare un esempio, anche se la
cosa può dipendere proprio da me che magari ho troppo in mente la vita di periferia alla Pasolini o da
inchiesta sociologica, «Bestiario», dove essa mi pare affiorare sulla base di
ricordi d’infanzia, è quasi
irriconoscibile tanto la trovo sovraccaricata di termini letterari che la
spostano in un’atmosfera da mitologie primordiali, fuori dalla storia.
Anche qui, questa forte
letterarietà per me è un problema: è un scelta per difenderti e distanziarti da
una realtà bruciante e
dolorosa, come mi accennavi? È adesione, dopo il fallimento della comunità
politica ad altre comunità (letterarie o d’altro tipo), dove essa è accettata
senza tutti i problemi che ti faccio io?
Per non rimanere a delle impressioni ma
esemplificare sui testi, eccoti alcuni appunti veloci su tre testi per me
interessanti:
1. «Banane luminose». La notte (questa notte) è «denso vorticare»
[più astratto di vortice
denso: ecco un esempio di scelta
lessicale intellettuale]. Poi subito tanti aggettivi: cruda, scannata, lucida,
tagliente. Poi la metafora parole-lame. Le parole sorgono «dagli abissi/Del
livore». Il livore è «voragine e crepaccio» [due parole
sinonimi invece di un solo termine]. Qui dentro «l’ombra del dolore» [ombra:
segno di distanziamento per rimozione più che per chiarimento?] e «ghiaia dei
giudizi» [si tratta di detriti; c’è svalutazione dell’atto del giudicare]. La
notte sta o è calata «sul frullato di banane», immagine un tantino
indecifrabile ma positiva in contrasto con la notte. Col tuo tipico stile
nominale c’è l’enumerazione dei suoi molteplici attributi terapeutici (plasma,
medicinale, ambrosia, sorriso). Ogni verso è quasi sempre un’unità a sé, che
aggiunge e moltiplica immagini [non azioni] o specifica qualcosa del soggetto
(Notte: oscura sovrana dei miei lupi/ Squillo…/Risucchio/Artiglio…).
2 «ATTI COATTI PARASTATALI». Qui il tema sembra socialmente
precisato: un ufficio, un ambiente impiegatizio. Si parla di archivi, di formule, di plichi, di
atti, di ragionieri, di «austeri funzionari», di noia, di impiegati stanchi in
attesa davanti agli ascensori guasti. Ma la spinta metaforica è potentissima.
Il dato realistico non ha svolgimento, non si fa narrazione ed è sopraffatto
dalla pulsione immaginifica (dito spartiacque, complesse verità sferiche,
scintillanti Excalibur-penna d’oro, pace verticale, sfuggenti come cavilli nei
tetri corridoi, pavimenti-sauri, fenicotteri malati) con tonalità
magico-misteriche, mi pare.
3 «GUERNICA DOPO GUERNICA». Qui la cellula del verso si presenta quasi seriale con la sua
schiera di aggettivi, participi e nomi [inutile esemplificare tanto è intensa
l’enumerazione in tutto il componimento]. L’iterazione si ritrova anche nelle rime
interne al primo verso (appesa…esplosa… offesa … arresa…accesa). Gli unici
verbi al presente stanno nel penultimo verso («cerca un grido di pace») e
nell’ultimo. Questo è il barocco [nel bene e nel male] di cui ti dicevo. Qui
portato all’esasperazione espressionistica. Che sicuramente, dato il tema,
appare “giustificata”. A prima vista però. Perché, almeno dal mio punto di
vista, il fascino che un
poeta può subire dall’immaginario di un altro artista (in questo caso di un
pittore grandissimo anche per me come Picasso) va sempre
commisurato alla realtà che viviamo oggi, che potrebbe non essere più afferrata da quella
espressività di un’altra epoca, di un altro mondo sociale, ecc.
Ti ho detto la mia. Spero di non averti irritato anche stavolta.
Io vado in vacanza per una ventina di giorni, ma cercherò di
seguire la posta
elettronica. Perciò scrivimi pure.
Un caro saluto
Ennio
P.s.
Sempre per allargare il discorso sulla poesia contemporanea e per
conoscerci di più, ti mando un’altra delle mie riflessioni a circolazione quasi
nulla ( è uscita sulla rivista Inoltre quasi introvabile. In essa tra l’altro
ritroverai un colloquio con il per te “famigerato” Majorino!).
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