Luca Lenzini (Firenze, 1954) ha dedicato studi e commenti all’opera di
Vittorio Sereni, Franco Fortini, Guido Gozzano, Giovanni Giudici,
Attilio Bertolucci, Alessandro Parronchi ed altri autori novecenteschi.
Dirige la Biblioteca della Facoltà di Lettere e filosofia
dell’Università di Siena ed è membro del Centro studi Franco Fortini. Il poeta di nome Fortini è stato pubblicato nel 1999 da Piero Manni. Di recente (2008) ha pubblicato per la Quodlibet Stile tardo. Poeti del Novecento italiano.
Cologno Monzese 23/30 marzo 2000
Caro Luca,
a scanso di equivoci sul tenore di questa mia
su Il poeta di nome Fortini, ti dichiaro
in partenza la mia ammirazione non convenzionale per il tuo lavoro. Sai
bene che l’argomento del tuo studio - Fortini e la sua opera - mi suscita un
coinvolgimento tormentoso, che ora si proietta anche sul tuo libro. Perciò
metto le mani avanti: i miei giudizi risulteranno “tendenziosi”, a volte
rischierò d’infastidirti, altre di esporre tutta la mia ombrosa inquietudine.
Spero però nella possibilità di approfondire comunque il dialogo fra noi. E ti
chiedo di rispondermi, quando puoi, con la stessa sincerità, senza esitare a
correggermi, se ti sembrerà necessario.
Ecco per
punti le mie osservazioni analitiche sui vari capitoli del libro.
1. Il momento di Fortini.
Secondo me, il momento di Fortini, auspicato da Luperini in
quell’intervento del 1985 (5) non è mai cominciato. Il consenso per Composita
solvantur (217) mi è parso passeggero, legato alle circostanze della sua
morte; e al di fuori della cerchia ristretta degli amici-critici di Fortini non
è emersa nessuna maggiore attenzione alla sua figura di poeta. Né intravedo il
tempo in cui sarà possibile usare - a livello pubblico, politico e non
cenacolare e minoritario - quei suoi giacimenti di futuro. Te lo dico con schiettezza e preoccupazione.
Un mutamento d’epoca, iniziato ben prima della sua morte, s’è interposto fra noi e la sua opera e mi sembra sempre più arduo tenere assieme l’analisi o l’esperienza di questa realtà profondamente mutata e le sue “verità”.[1] Non si può tacere che tutto sia andato, e vada da tempo, in direzione opposta alle sue indicazioni e alle sue e nostre speranze. Non è un mutamento di stagione. Non si tratta solo dei “cinque inverni” di cui ha parlato Raffaeli recensendoti. Perciò vedo una frattura fra il mondo di Fortini e questo in cui siamo, nolenti, immersi e resto scettico verso le posizioni continuiste. E questo tuo tentativo di proteggere e reinventare appunto in continuità, le “verità” fortiniane con una piena adesione al suo pensiero dialettico e alle sue scelte letterarie, è in attrito con un mio inquieto “fortinismo da esodo”, che le ama, ma al contempo, misurandone l’inattualità, l’impraticabilità politica e il pur particolare idealismo, se ne distanzia.
Un mutamento d’epoca, iniziato ben prima della sua morte, s’è interposto fra noi e la sua opera e mi sembra sempre più arduo tenere assieme l’analisi o l’esperienza di questa realtà profondamente mutata e le sue “verità”.[1] Non si può tacere che tutto sia andato, e vada da tempo, in direzione opposta alle sue indicazioni e alle sue e nostre speranze. Non è un mutamento di stagione. Non si tratta solo dei “cinque inverni” di cui ha parlato Raffaeli recensendoti. Perciò vedo una frattura fra il mondo di Fortini e questo in cui siamo, nolenti, immersi e resto scettico verso le posizioni continuiste. E questo tuo tentativo di proteggere e reinventare appunto in continuità, le “verità” fortiniane con una piena adesione al suo pensiero dialettico e alle sue scelte letterarie, è in attrito con un mio inquieto “fortinismo da esodo”, che le ama, ma al contempo, misurandone l’inattualità, l’impraticabilità politica e il pur particolare idealismo, se ne distanzia.
Lasciando da parte per il momento il tipo di risposta politico -
culturale che va definendosi attorno al CENTRO F.F. e a L’OSPITE INGRATO,
mi “accanirò” sulla recensione di Raffaeli al tuo libro sul manifesto
del 28 nov. ’99. La considero spia,
anche più diretta rispetto alle tue posizioni, di questo atteggiamento
intellettuale continuista che non mi convince. Quella recensione esprime un
“fortinismo al quadrato”. Con un’accentuazione tutta etica, nota quanto sia
“peggiorata, qui come altrove, la condizione e la stessa speranza di vita degli
uomini, specie di coloro che si trovano al margine e sotto rispetto ai
meccanismi che decretano qualità/senso/durata dell’esistere”, ma afferma quasi
consolatoriamente: “però nulla è mutato in profondo” (cioè - interpreto -:
quello che noi pensavamo e pensiamo del mondo è tuttora valido. Amen.).
Attribuisce poi ai tuoi saggi un’esigenza “di rivendicazione e di ricompensa”.
Esigenza giusta, in essi presente senz’altro. Ma oggi a chi rivendicare o
chiedere ricompensa per il silenzio su Fortini (e non solo su di lui...) e le
sue “verità”? Questa Cultura americanizzata non presterà ascolto. Il tuo stesso libro – lo sai bene – avrà
scarsa o nulla udienza negli ambienti controllati da questi nuovi e potenti cortigiani.
Ma al posto dell’odio o della
lucida analisi del Dominio (o dell’indicazione soppesata delle sacche di
resistenza o degli embrioni di antagonismo a questi Poteri), in questo articolo
di Raffaeli scorgo una fastidiosa nostalgia (“a mancarci è, innanzitutto, la
parola poetica di Fortini”), una tendenza a ripetere, in modi consolatori e inter nos, le “verità elementari e
decisive” del maestro perduto; e un’esasperazione beffarda, ma impotente. Che
non scalfisce i dominatori (“due tra le maschere più lerce del capitalismo
italiano, l’imperituro presidente della Fiat e il monatto di lusso poi
responsabile della liquidazione dell’Olivetti”, ecc.). Forse si esprime così quel “morire al
presente” (188), che - come tu ricordi - è messaggio “duro e terribile” dello
stesso Fortini? Io ne sono respinto. Quella formula fortiniana mi pare ribadire un’autoreclusione, forse
contiene già in partenza una scelta di clausura. E la temo, perché già mi sento
troppo ghettizzato. Preferirei
altre indicazioni: quelle dell’ultimo Fortini, ad esempio, di “attraversare la
condizione postmoderna” (assai vicine - spero - all’atteggiamento da esodo
che vorrei sostenere io). Oppure prendere alla lettera quell’inventare tutto,
dopo che ho trovato già impraticabile il buon uso delle rovine (della
Sinistra in particolare) a cui c’invitava in
Extrema ratio. Non faccio coincidere l’atteggiamento di Raffaeli
(espresso dopotutto in un articoletto di giornale) con il tuo, ben più
articolato e meditato. Ma, su un punto c’è tra voi piena coincidenza. Per dirla
in sintesi e con forzatura: entrambi ritagliate il poeta e sfumate il
comunista (sia pur particolare). O meglio: non trovo più stringente nel
vostro discorso il nesso complicato fra
poesia di Fortini e lotta per il comunismo nell’epoca in cui visse; e
ora fra poesia di Fortini e crisi attuale (catastrofica) di quella lotta. E
questo mi spiazza e m’induce a chiedermi: mi attardo da isolato su problemi
“superati” o mal posti o fuori posto?
2.Quale
comunismo?
Sono incerto se parlare per il tuo libro di velatura dell’esperienza comunista di Fortini. Ma se così fosse,
riconosco che viene fatta in maniera decorosa. E’ forse addirittura “giusta”
tatticamente, se si pensa a quel che corre in giro nelle università o
nell’editoria. E’ poi quasi ineccepibile sul piano dell’aderenza ai testi,
oltre a trovare salde conferme critiche (Mengaldo, Luperini, ecc). Ma mi ha colpito l’insistenza
sulla tensione religiosa di Fortini (il profetismo, la centralità della Bibbia
nella sua formazione) o sul debito del suo marxismo dalla “più alta tradizione
di pensiero dell’intellighenzia borghese” (11). Penso, per essere preciso,
all’enfasi posta su “tensione al futuro e figure di distruzione”; alla tua
tendenza a vedere “il ‘comunismo’ di Fortini” emergere da una “istanza sacrificale” (200),
quale ‘passione’ nel senso della “letteratura religioso-profetica” (200) o a tenerlo “fuori dal gioco delle polemiche e
delle ‘poetiche’” (6). Oppure al rifiuto della “formula di ‘marxista eretico’”,
quasi fosse ormai troppo “militante”.[2]
Cosa vuoi di più? Il comunismo di Fortini questo era. Non pretenderai –
potresti obiettarmi – che io scriva su
un tema generale, magari un trattato su
comunismo e letteratura o crisi del comunismo e poesia. Ebbene, proprio qui
vorrei darti uno scossone con la mia inquietudine, depurandola dai toni esigenti, vagamente politici e a volte antiletterari, che so di avere. Può
darsi che il “comunismo di Fortini” fosse proprio questo, un comunismo
cristiano. Ma io non so rassegnarmi ad un comunismo ridotto oggi – in tempi
di sconfitta e di dissoluzione delle esperienze dichiaratamente comuniste - ad
una generica apertura ad “istanze utopiche” (11). Né riesco ad accettare che la
stessa utopia, quella blochiana, concreta, nel tuo libro si presenti senza aggettivi (se
non sbaglio). Perché così essa rischia di mettere tra parentesi le pratiche
storiche del comunismo sconfitto e rientra nell’idea di comunismo come (quasi
sempiterno) valore ideale. Posso sbagliarmi, ma temo che lo spirito (revisionista) del
nostro tempo blocchi le possibilità di riprendere con vigore e indipendenza
(anche rispetto a Fortini) il tema così ambiguo della crisi del comunismo
e ci ricacci proprio a queste posizioni
più sfumate o “idealistiche”.[3]
Sono – ripeto - molto cauto e ho varie incertezze nel prendere le
distanze dalla tua interpretazione “escatologica” della poesia di Fortini. Le
mie riserve, infatti, a tratti si
ridimensionano o si confondono di fronte ad altre tue affermazioni che, pur
ricordando (e come si potrebbe non farlo?) gli aspetti “para-religiosi” o
immediatamente riconducibili alla sfera religiosa di Fortini,[4]
proclamano che “l’appello ad una serie di elementi di matrice biblica non
sarebbe così efficace, quando fosse privato dell’elemento di choc
derivante dall’inserirsi nel quadro di un materialismo profondo, irriducibile
ad ogni simbologia canonica o tradizionale ed ostile ad un allegorismo univoco
o metafisico” (14). In queste tue
precisazioni mi pare di cogliere una distinzione condivisibile fra matrice
religiosa (e biblica) e svolgimento storico (letto nell’ambito
marxiano) del suo pensiero e della sua opera poetica. Eppure – forse è qui il
punto che ci divide –vorrei sostenere ancora oggi la necessità di distinguere
fra profetismo biblico e comunismo, spostandomi dalla sintesi che Fortini ne fece[5]
e senza scivolare – spero - nelle tronfie contrapposizioni religione/scienze o
mito/scienze.
Vorrei,
perciò, che lo studio su Fortini o sulla sua poesia fosse più calato negli avvenimenti storici del ‘900 e
tenesse più conto dei dubbi e delle ambiguità dell’oggi. Uno di questi dubbi
riguarda per me quel percorso teleologico di pianto in ragione (44),
che ritengo sintesi parziale di una
parte soltanto della vita di Fortini. (Non credo dell’ultima o della
giovinezza. Poi dirò...). Nel tuo libro, invece, trovo tutti i fili che tengono
legata l’opera poetica di Fortini a una tradizione (quella biblica, Benjamin
(8), Dante-Auerbach(8)), ma mi sembrano attenuati o posti sullo sfondo gli
elementi che potrebbero forse entrare in conflitto con essa: quelli, cioè, che
la trattengono di più alla storia de Novecento, al “movimento operaio”, alla
vicenda del “comunismo novecentesco”, ai movimenti intellettuali cui, attivamente credo, partecipò (e da cui pur
dovette essere condizionato ma anche
molto incoraggiato nella sua ricerca strettamente letteraria, critica e
poetica). Non dico che accentui troppo un distanziamento dalla storia, che
forse fu tentazione costante dello stesso Fortini o “scelta” dei suoi ultimi
anni. Ma un po’ la storia e il suo peso postitivo/negativo la vedo messa tra
parentesi o data per assodata, come se non ci fosse bisogno di tornarci
su. E perciò la “decostruzione
ideologica dell’avversario” di Fortini mi sembra fondarsi più su base
escatologica che sulla concreta base storico-politica della sua esperienza (11) e a me pare troppo
“epocale”, come si avesse fretta di tirarsene fuori.
3. Sull’allegorismo.
In Una facile allegoria (II) condividi
l’idea di Luperini che il comunismo di Fortini sarebbe un “pieno” che nella sua
poesia si presenterebbe come allegoria “vuota” (206). Se ben comprendo, sembra
che il comunismo di Fortini stia tutto nella sua poesia e non può essere che allegorico.
Anche qui non mi rassegno. Credo che - in analogia con quanto appena detto sul
suo comunismo “profetico” - un’indagine più accurata debba vedere sotto
un’altra luce la scelta allegorica della sua poesia. Quando, ad esempio,
trattando della parentela fra Brecht e Fortini[6] e
della divisione amici/nemici (che - aggiungo - nella realtà non è così evidente
come quando la troviamo rappresentata sul piano della cultura marxista o
cristiana), volessimo considerare seriamente “quel se stesso confuso che partecipa
della confusione di tutti” (149) e riflettere sulle prove numerose che “tutto
continua – può continuare – come prima, senza che gli uomini si ribellino,
senza che la necessità del mutamento si faccia strada nella loro coscienza”
(150), cosa pensare del rafforzamento
dell’“istanza volitiva” (151)? Non possiamo negare un suo tratto compensatorio. Né sorvolare che
anche l’allegoria è forma compensatoria (anche se non riducibile a sola
compensazione). La “religiosità” di Fortini e il suo allegorismo sono anche contraccolpi “difensivi” - penso
io - per esperienze, personali e comuni, fallite. Non mi va che diventino
emblemi solo positivi o “modelli”. Non
mi va di considerare l’allegoria il “massimo” di comunismo che si può “dire” in
poesia. (In una recente lettera a Pietro Cataldi, chiedevo forse in modo troppo
provocatorio fino a che punto oggi dobbiamo o ci costringiamo ad essere allegorici...).
Ricompare a questo punto, ancora una volta, la questione di fondo che
mi preme e che nel tuo libro mi pare fondamentale: quella del rapporto tra cristianesimo e
comunismo. E’ questione strettamente legata a quella dell’allegoria come forma
“provvisoria” e allusiva di una Totalità, di un Pieno da conquistare. E sono
ancora incerto: se da un lato può semvbrare positivo che una visione totale
dell’umano (del comunismo) sia stata conservata
e trasmessa sotto i veli del
cristianesimo non sacerdotale (Bloch) e ora - in questi tempi tornati grami
- potrebbe essere salvaguardata dalla
poesia allegorica di Fortini, dall’altro temo - ripeto - una sovrapposizione
(idealistica mi pare) di tale visione “escatologica” all’esperienza storica.
Comune di Parigi, rivoluzione russa, esperienza maoista, moti del ’68
mi sembrano eventi sempre sminuiti o quasi delle brutte copie (in
senso platonico) di una visione totale e platonica. Proprio perché guardati dal
punto di vista della Totalità, tali eventi storici appaiono al massimo
come suoi segmenti sempre parziali e mai
veramente autonomi. E poi – domanda scandalosa per dei poeti e degli uomini di
cultura – gli eventi contano di per sé o solo per la parte tradotta
in simboli religiosi, in allegorie poetiche o rappresentazioni scientifiche? E
la parte di tali avvenimenti che
sfugge alla nostra presa? A me pare - lo dico con l’accetta - che la religiosità può quasi scoraggiare la voglia di “stare
dentro” agli eventi storici o di costruire anche secondo progetti più
approssimativi (da non confondere con quelli
offerti dai Potenti...) e magari
non del tutto rispettosi della Tradizione (della Totalità); e che l’allegoria
sembra tener lontani da mondi più sfuggenti e ambigui.
I due capitoli, L’educazione e Il paesaggio e la gioia.
Osservazioni su Leopardi in Fortini, ben si prestano ad un approfondimento di
quanto ho qui azzardato. In essi mi pare di vederti avviato ad una
rielaborazione dell’immagine di Fortini più indipendente ed originale rispetto
ai consueti studi “fortiniani”. Il primo, che si sofferma su un aspetto della
biografia di Fortini a me poco noto, mi ha incuriosito. Ma mi sono chiesto se
la modalità tutta interiore (religiosamente condizionata), con cui quella
passione artistica fu vissuta[7], vada
presa tutta per buona. Questo ritratto
(o forse autoritratto?) di Fortini “as a Young Man” conferma la
visione matura (hegeliana?) che Fortini ebbe dell’arte: importante, ma
parziale, da superare (a causa dell’“enfasi portata [dall’arte]
sull’elemento sensuale” (28). Tu accogli in pieno la sua “condanna postuma di
un atteggiamento culturale anti-storico e anti-materialista, non senza
risonanze nicciane” (37) e del “peccato giovanile e fiorentino dell’io” (36)
espressa con vigore in Sestina a Firenze.
E se non lo seguissimo su questa strada? E se, andando oltre la vulgata di se stesso lasciataci dallo stesso Fortini e
accolta dai fortini ani, che del primo Fortini “mettono in rilievo i
motivi ‘resistenziali’ e la prospettiva etico-utopica”, scavassimo di più in questo suo “momento ‘nichilistico’, di
deiezione e angoscia” (37) o sull’“elemento sensuale che era così in evidenza
nell’Educazione, in quel corpo bruciante di ragazzo sedotto dalle forme
dell’arte” (38) e - si potrebbe aggiungere senza ipocrisie – da quelle della
vita a cui esse alludevano? (E magari l’associassimo ad un altro consimile, che
mi pare di poter cogliere nell’ultimo Fortini e che tu tendi a
ridimensionare...)?
La tua interpretazione alla fine accoglie dell’arte l’elemento utopico,
masaccesco e non quello sensuale, qui riferito alla Sala della Niobe (44); e
“chiude frettolosamente”, senza ulteriori domande quella giovanile “dialettica tra nichilismo e
speranza” (38) allora drammaticamente aperta in Fortini. Mi pare che qui tu abbia sfiorato un nodo
scottante, ma abbia esitato a esplorarlo a tutto campo. (Se procedessimo,
aggirando l’autorappresentazione che ne ha dato lo stesso Fortini[8] e
appoggiandoci forse fin troppo ai successivi sviluppi “adulti”, penso - ad
esempio - che tutto il suo rapporto con Pasolini potrebbero essere ripensato
sotto altra luce e, forse, anche la visione dell’arte “incapace di uscire da
sé, di vedere oltre il muro” (38). Bestemmio?).
Anche ne Il
paesaggio e la gioia. Osservazioni su Leopardi in Fortini mi pare ci sia un’oscillazione
feconda, ma presto - vietandoti interrogazioni eterodosse - interrotta. Prima,
infatti, rilevi la presenza di un certo tipo di poesia fondata sull’io e sulla
memoria dell’infanzia (E penso a tutti i
tuoi studi che ho letto in Interazioni[9]); ma poi rientri
presto nella visione, non falsa ma troppo “canonica”, di
Fortini poeta “adulto” e “civile”. La prima operazione[10],
spinta a fondo, metterebbe in ombra o porrebbe sotto diversa luce quest’ultima,
consolidata immagine di Fortini? Apparirebbe a qualcuno (non a me, di certo) un
ripescaggio inopportuno del “privato” e delle convulsioni “giovanili”? O aprirebbe spiragli per una ricerca che non si
accontenti di “poeti-statue”? Tu mi
sembri andare con una certa costanza in questa direzione, rivalutando aspetti
(in questo caso il leopardismo di Fortini) considerati forse marginali dallo stesso Fortini maturo e dai suoi
interpreti, ma lo fai - mi pare - con un sovrappiù di timidezza e ossequio.
Forse il rispetto del pensare dialettico ti impone di mostrare la polarità
contraddittoria delle istanze di
Fortini, ma di affrettarti ad un (inspiegato per me, mi viene di aggiungere) superamento. Possibile che Fortini non può essere mai
stato nichilista, “pacificato”, “amoroso”? Ed è e deve rimanere sempre ospite
ingrato a tutto tondo?[11]
Chiudo provvisoriamente qui. Con
stima e affetto.
Ennio
[1] Un piccolo ma non trascurabile esempio: Ipsilon,
l’associazione culturale che abbiamo fondato a Cologno 10 anni fa, era nata
all’insegna di Fortini. Col tempo solo il guscio è rimasto
formalmente fortiniano, ma le pratiche individuali dei partecipanti
al piccolo gruppo si sono disperse. Il momento fortiniano-comunista è diventato di facciata e le pratiche sono venute a
patto – come nei partiti-chiesa – con il mondo criticato. Eppure faccio Samizdat Colognom! Ma quanto in continuità con la lezione di
Fortini? Mi chiedo spesso in cosa
consisteva la mia affinità con Fortini. Sta, forse, in un mio elementare
cristianesimo, che ha profonde radici nella mia esperienza del dopoguerra al
Sud di semipovertà e di isolamento e che mi aveva spinto, immigrato a Milano, a
una critica nelle situazioni pubbliche
(Cologno, scuola) radicale, ma sempre più da isolato. Tale critica in parte resta per me irrinunciabile e in parte
è una “condanna” a cui so
di non poter più sfuggire. Quest’atteggiamento era mio già prima di conoscere
Fortini. Sulla spinta dei suoi scritti,
s’era però rafforzato. Ma pur congeniale e vissuto, ne sento l’inadeguatezza
rispetto alla “realtà” quotidiana o generale (per quel che afferro del
generale...), che nei suoi svolgimenti è andato sempre di più contro i miei
desideri e le aspettative costruite assieme ad altri dal ’68 in avanti. L’area
culturale in cui avevamo da allora operato (diciamo di “nuova sinistra”) ha man mano designato questo cambiamento o con
eufemismi ancora speranzosi (“crisi del marxismo”, “critica della Politica”) o
con un oggettivismo avanguardistico ebbramente futurista (“postmodernismo”,
“postmodernità”).
[2] Tu
sembri propendere per una militanza non più riconducibile ad una “qualche dottrina” o formazione politica.
E mi va bene. Ma se essa consistesse
“anzitutto e una volta per sempre, [nel] mettersi dalla parte degli sconfitti e
contro la “trionfante organizzazione delle carogne”” (11), non risulterebbe
troppo generica e idealistica?
Quel mettersi
dalla parte degli sconfitti è molto “cristiano”, ma fatto interiore e
ideale di solito; e trascura che il comunismo delle origini non era moto di sconfitti.
La sconfitta, ora evidente, non viene estesa a tutto un passato storico
punteggiato di lotte cruente e la figura del proletariato non viene a
coincidere con quella delle vittime predestinate?
[3] Mi
riferisco anche al documento (ora articolo su L’ospite ingrato 1999) di
Luperini, Essere comunisti oggi, da te fornitomi a suo tempo. In una
lettera, che gli indirizzai a proposito di un suo libretto, Il professore
come intellettuale, commentai così quel suo scritto:
“Il comunismo vi viene presentato come un valore e coincide in particolare con il valore della comunità. Tanti anche qui i
miei dubbi. Telegraficamente in questa sede:
- Trovo troppo sbrigativo il giudizio sul “comunismo
storico” ridotto a «valore assoluto», «utopia», «”falsa coscienza” di Stati
nazionali»;
- In cosa si differenzierebbe il valore comunismo dagli altri valori?
Sulla base di cosa (esperienza? concetto? soggettività del sentire?) gli uomini
dovrebbero ritenere che «è meglio ciò che unisce da ciò che divide»? In
base ad un’ontologia? E allora non si ricadrebbe in una forma di assolutismo? Se il comunismo non è
valore dimostrabile, in base a cosa può rendersi visibile? Non è più una
certezza. Va bene. Ma perché è possibile?
- Questo comunismo
valore «non si identifica con un progetto». Perché non ce ne sono di
credibili oggi? Perché qualsiasi progetto sarebbe deleterio? Ma come non
preoccuparsi del fatto che ad «abolire lo stato presente delle cose (Marx)» ci
pensano più spesso i processi di ristrutturazione capitalistica (le rivoluzioni dall’alto) che i processi di
rivoluzioni dal basso. Non mi pare
incoraggiante o consolante se oggi essere comunisti significhi
genericamente «essere in cammino» o «credere» («che l’eguaglianza e la
fratellanza degli uomini siano preferibili al dominio di una piccola parte
sulla grande massa dell’umanità ») o «preferire». Su questo, a livello di
idee e di auspici o desiderio, ci siamo come minimo dai tempi di Cristo (in
teoria). E «l’esigenza di rimuovere le cause materiali e politiche, ecc....»
resta ideale nobile, ma in aria, anche dopo Marx.
Il comunismo era stato pensato non solo come
prosecuzione ideale, ma inveramento umano reale
del cristianesimo (alla Bloch). Tu lo vuoi ripensare solo nei confini
(limitati) dei valori «laici e relativi»? Ma il carattere «pragmatico, parziale
e caduco ma necessario» dei valori non lo riconoscono anche i liberali?
-.Il capitalismo è solo disgregazione, è solo nichilismo?
Davvero manca di ogni legittimazione?
Di fronte a chi? Chi può chiedergli conto dei bombardamenti sull’Irak, delle dimenticanze sull’Algeria?
- «La ricerca del senso della vita» non equivale
automaticamente a bisogno di comunismo
o di senso comunista (Tanti,
proprio perché hanno introiettato il senso
del limite o dei valori laici, lo
trovano in professioni e consumi ben poco comunisti).
- Come mai una parte di noi stessi collabora
così facilmente ad affondare gli albanesi?
Perché, allora, mettere tra parentesi l’aspetto critico negativo (presente in
Marx, Nietzsche, Freud) che ancora cerca di scavare in queste oscurità? Perché
la critica negativa dovrebbe coincidere con il nichilismo?
- Nei ««limiti della condizione umana» rientrano o no
anche i rapporti capitalistici? La differenza fra comunismo e capitalismo si
ridurrebbe alla gestione comunitaria o
egoistica dei limiti della condizione
umana?
- Unire gli uomini? Ma per che cosa?
- E infine: non vedo nessun collegamento fra questa
idea di comunismo comunitario e il
lavoro.”
[4]
Scrivi anche: “Si potrebbe discutere di quella “fede opaca” e di quel “vero”,
se siano da interpretarsi in una prospettiva decisamente ‘religiosa’ o
meno”(14).
[5] Ciò
implicherebbe una nuova visione del comunismo, che non si lasciasse tentare
dalle analogie coi comunismi religiosi del passato (cristianesimo
compreso), che non si vedesse già prefigurato
in qualche nobile Tradizione, che forse dovrebbe essere tutto inventato.
Sarebbe però oggi velleitario che io tentassi di balbettare di più in questa direzione e mi
fermo.
[6]
“Separazione-contrapposizione tra l’io, partecipe di un “noi” che è l’insieme
degli oppressi, e appunto “quelli”, o per dirla sempre con Brecht, “chi sta in
alto”” (148). Etc...
[7] Tu scrivi che fu vissuta conflittualmente in “un
contesto psicologico in cui la Colpa e la Punizione, il Desiderio e la
Trasgressione sono strettamente intrecciati ed in tensione fra di loro” (26) e
sfocerà – secondo la ricostruzione dello stesso Fortini nel Cani del Sinai
– nella rimozione dell’arte (della pittura) (26).
[8] Anche nelle considerazioni sulla traduzione
fortiniana de Il ladro di ciliege trovo un’adesione eccessiva
all’interpretazione che Fortini ha dato
di quella poesia; e un cedimento, pur da te temuto, all’atteggiamento da parafrasatore
più che da critico.
Il rischio è di non aggiungere altro a quanto da
Fortini detto e di tacere sullo scarto
fra le affermazioni più fiduciose (“la profezia messa in scena dal ladro è
profezia di una fine – la fine del mondo borghese: quindi della lotta di
classe e delle battaglie fra gli uomini” (157)) e la coscienza della crisi o
di una fine (del comunismo o, almeno, di un certo comunismo) che
caratterizza la fine del ‘900. È vero che
affermi: “se ci ponessimo di fronte al testo da un punto di vista
diverso da quello di Fortini”(158). Ma questo altro punto di vista non è
mai attraversato da dubbi e ti
accontenti di cogliere la coerente
adesione di Fortini alla “prospettiva brechtiana” (159) o la sua prossimità
alle Tesi di filosofia della storia di Benjamin (160). Come dire che le conferme
di quanto Fortini afferma vengono da alcuni dei suoi autori preferiti e
antenati. Ma il confronto personale con la “realtà” storica, quotidiana, anche attuale è eluso. Forse perché quella
”realtà” è un inganno, non è “vera”?
[9]
Luca Lenzini, Interazioni
[10] Quella di scovare i segni
residuali di “”appartenenza”” di Fortini a Firenze, alla “”città nemica”” (58)
o mettere in luce che “due linguaggi
(due tradizioni) coabitano nei versi della Città nemica, e più in
generale in Foglio di via: quella dantesca dell’esule, che tende
all’allegoria e risuona di echi biblici ( la “morte seconda”), e quella della
soggettività, del ricordo, dell’idillio”(60).
[11]
Infatti scrivi:“in ogni caso, la poesia di Fortini è già, e resterà poesia
della disappartenenza: chi volesse trovarvi altre tracce di un rapporto
pacificato con il paesaggio, angoli di quieto abbandono alla memoria ( o nuove
modulazioni della lingua della soggettività) non raccoglierebbe molto di più
nel percorso che da Foglio di via porta a Composita solvantur”
(60). A me sembra un avvertimento
rivolto a te stesso....
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