Note e riflessioni sulle scritture di amici e amiche

Alla ricerca di un senso nel mondo instabile e molteplice che poco conosciamo

Ai visitatori. Su questo blog (abbozzato nel 2010) pubblicherò le mie note di lettura sui testi editi o inediti. Nel caso di testi editi ritengo di poter esercitare liberamente il comune diritto alla critica. Per gli inediti, se necessario, chiederò prima l'autorizzazione ai diretti interessati. [E.A.]

15 luglio 2011

giovedì 15 dicembre 2011

Su Luca Lenzini
"Il poeta di nome Fortini"


 Luca Lenzini (Firenze, 1954) ha dedicato studi e commenti all’opera di Vittorio Sereni, Franco Fortini, Guido Gozzano, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Alessandro Parronchi ed altri autori novecenteschi. Dirige la Biblioteca della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena ed è membro del Centro studi Franco Fortini. Il poeta di nome Fortini è stato pubblicato nel 1999 da Piero Manni. Di recente (2008) ha pubblicato per la Quodlibet Stile tardo. Poeti del Novecento italiano. 


Cologno Monzese 23/30 marzo 2000

Caro Luca,
                       
                         a scanso di equivoci sul tenore di questa mia su Il poeta di nome Fortini, ti dichiaro  in partenza la mia ammirazione non convenzionale per il tuo lavoro. Sai bene che l’argomento del tuo studio - Fortini e la sua opera - mi suscita un coinvolgimento tormentoso, che ora si proietta anche sul tuo libro. Perciò metto le mani avanti: i miei giudizi risulteranno “tendenziosi”, a volte rischierò d’infastidirti, altre di esporre tutta la mia ombrosa inquietudine. Spero però nella possibilità di approfondire comunque il dialogo fra noi. E ti chiedo di rispondermi, quando puoi, con la stessa sincerità, senza esitare a correggermi, se ti sembrerà necessario.
Ecco per punti le mie osservazioni analitiche sui vari capitoli del libro.

1. Il momento di Fortini.

Secondo me, il momento di Fortini, auspicato da Luperini in quell’intervento del 1985 (5) non è mai cominciato. Il consenso per Composita solvantur (217) mi è parso passeggero, legato alle circostanze della sua morte; e al di fuori della cerchia ristretta degli amici-critici di Fortini non è emersa nessuna maggiore attenzione alla sua figura di poeta. Né intravedo il tempo in cui sarà possibile usare - a livello pubblico, politico e non cenacolare e minoritario - quei suoi giacimenti di futuro.  Te lo dico con schiettezza e preoccupazione.
Un mutamento d’epoca, iniziato ben prima della sua morte, s’è interposto fra noi e la sua opera e mi sembra sempre più arduo tenere assieme l’analisi o l’esperienza di questa realtà profondamente mutata e le sue “verità”.[1] Non  si può tacere che tutto sia andato, e vada  da tempo, in direzione opposta alle sue indicazioni e alle sue e nostre speranze. Non è un mutamento di stagione.  Non si tratta solo dei “cinque inverni” di cui ha parlato Raffaeli recensendoti.  Perciò vedo una frattura fra il mondo di Fortini e questo in cui siamo, nolenti, immersi e resto scettico verso le posizioni continuiste. E questo tuo tentativo di proteggere e reinventare appunto in continuità, le “verità” fortiniane con una piena adesione al suo pensiero dialettico e alle sue scelte letterarie, è in attrito con un mio inquieto “fortinismo da esodo”, che le ama, ma al contempo, misurandone l’inattualità, l’impraticabilità politica e il pur particolare idealismo, se ne distanzia.
Lasciando da parte per il momento il tipo di risposta politico - culturale che va definendosi attorno al CENTRO F.F. e a L’OSPITE INGRATO, mi “accanirò” sulla recensione di Raffaeli al tuo libro sul manifesto del 28 nov. ’99.  La considero spia, anche più diretta rispetto alle tue posizioni, di questo atteggiamento intellettuale continuista che non mi convince. Quella recensione esprime un “fortinismo al quadrato”. Con un’accentuazione tutta etica, nota quanto sia “peggiorata, qui come altrove, la condizione e la stessa speranza di vita degli uomini, specie di coloro che si trovano al margine e sotto rispetto ai meccanismi che decretano qualità/senso/durata dell’esistere”, ma afferma quasi consolatoriamente: “però nulla è mutato in profondo” (cioè - interpreto -: quello che noi pensavamo e pensiamo del mondo è tuttora valido. Amen.). Attribuisce poi ai tuoi saggi un’esigenza “di rivendicazione e di ricompensa”. Esigenza giusta, in essi presente senz’altro. Ma oggi a chi rivendicare o chiedere ricompensa per il silenzio su Fortini (e non solo su di lui...) e le sue “verità”? Questa Cultura americanizzata non presterà ascolto.  Il tuo stesso libro – lo sai bene – avrà scarsa o nulla udienza negli ambienti controllati da questi  nuovi e potenti cortigiani.
Ma al posto dell’odio o della lucida analisi del Dominio (o dell’indicazione soppesata delle sacche di resistenza o degli embrioni di antagonismo a questi Poteri), in questo articolo di Raffaeli scorgo una fastidiosa nostalgia (“a mancarci è, innanzitutto, la parola poetica di Fortini”), una tendenza a ripetere, in modi consolatori e inter nos, le “verità elementari e decisive” del maestro perduto; e un’esasperazione beffarda, ma impotente. Che non scalfisce i dominatori (“due tra le maschere più lerce del capitalismo italiano, l’imperituro presidente della Fiat e il monatto di lusso poi responsabile della liquidazione dell’Olivetti”, ecc.).  Forse si esprime così quel “morire al presente” (188), che - come tu ricordi - è messaggio “duro e terribile” dello stesso Fortini? Io ne sono respinto. Quella formula fortiniana  mi pare ribadire un’autoreclusione, forse contiene già in partenza una scelta di clausura. E la temo, perché già mi sento troppo ghettizzato. Preferirei altre indicazioni: quelle dell’ultimo Fortini, ad esempio, di “attraversare la condizione postmoderna” (assai vicine - spero - all’atteggiamento da esodo che vorrei sostenere io). Oppure prendere alla lettera quell’inventare tutto, dopo che ho trovato già impraticabile il buon uso delle rovine (della Sinistra in particolare) a cui c’invitava in  Extrema ratio. Non faccio coincidere l’atteggiamento di Raffaeli (espresso dopotutto in un articoletto di giornale) con il tuo, ben più articolato e meditato. Ma, su un punto c’è tra voi piena coincidenza. Per dirla in sintesi e con forzatura: entrambi ritagliate il poeta e sfumate il comunista (sia pur particolare). O meglio: non trovo più stringente nel vostro discorso il nesso  complicato fra poesia di Fortini e lotta per il comunismo nell’epoca in cui visse; e ora fra poesia di Fortini e crisi attuale (catastrofica) di quella lotta. E questo mi spiazza e m’induce a chiedermi: mi attardo da isolato su problemi “superati” o mal posti o fuori posto?

2.Quale comunismo?

Sono incerto se parlare per il tuo libro di velatura dell’esperienza comunista di Fortini. Ma se così fosse, riconosco che viene fatta in maniera decorosa. E’ forse addirittura “giusta” tatticamente, se si pensa a quel che corre in giro nelle università o nell’editoria. E’ poi quasi ineccepibile sul piano dell’aderenza ai testi, oltre a trovare salde conferme critiche (Mengaldo,  Luperini, ecc). Ma mi ha colpito l’insistenza sulla tensione religiosa di Fortini (il profetismo, la centralità della Bibbia nella sua formazione) o sul debito del suo marxismo dalla “più alta tradizione di pensiero dell’intellighenzia borghese” (11). Penso, per essere preciso, all’enfasi posta su “tensione al futuro e figure di distruzione”; alla tua tendenza a vedere “il ‘comunismo’ di Fortini” emergere  da una “istanza sacrificale” (200), quale ‘passione’ nel senso della “letteratura religioso-profetica” (200) o  a tenerlo “fuori dal gioco delle polemiche e delle ‘poetiche’” (6). Oppure al rifiuto della “formula di ‘marxista eretico’”, quasi fosse ormai troppo “militante”.[2]
Cosa vuoi di più? Il comunismo di Fortini questo era. Non pretenderai – potresti obiettarmi – che io scriva  su un tema generale, magari un trattato  su comunismo e letteratura o crisi del comunismo e poesia. Ebbene, proprio qui vorrei darti uno scossone con la mia inquietudine, depurandola  dai toni esigenti, vagamente politici e  a volte antiletterari, che so di avere. Può darsi che il “comunismo di Fortini” fosse proprio questo, un comunismo cristiano. Ma io non so rassegnarmi ad un comunismo ridotto oggi – in tempi di sconfitta e di dissoluzione delle esperienze dichiaratamente comuniste - ad una generica apertura ad “istanze utopiche” (11). Né riesco ad accettare che la stessa utopia, quella blochiana, concreta,   nel tuo libro si presenti senza aggettivi (se non sbaglio). Perché così essa rischia di mettere tra parentesi le pratiche storiche del comunismo sconfitto e rientra nell’idea di comunismo come (quasi sempiterno) valore ideale. Posso sbagliarmi, ma  temo che lo spirito (revisionista) del nostro tempo blocchi le possibilità di riprendere con vigore e indipendenza (anche rispetto a Fortini) il tema così ambiguo della crisi del comunismo e ci ricacci proprio  a queste posizioni più sfumate o “idealistiche”.[3]
Sono – ripeto - molto cauto e ho varie incertezze nel prendere le distanze dalla tua interpretazione “escatologica” della poesia di Fortini. Le mie riserve, infatti,   a tratti si ridimensionano o si confondono di fronte ad altre tue affermazioni che, pur ricordando (e come si potrebbe non farlo?) gli aspetti “para-religiosi” o immediatamente riconducibili alla sfera religiosa di Fortini,[4] proclamano che “l’appello ad una serie di elementi di matrice biblica non sarebbe così efficace, quando fosse privato dell’elemento di choc derivante dall’inserirsi nel quadro di un materialismo profondo, irriducibile ad ogni simbologia canonica o tradizionale ed ostile ad un allegorismo univoco o metafisico” (14). In queste tue precisazioni mi pare di cogliere una distinzione condivisibile fra matrice religiosa (e biblica) e svolgimento storico (letto nell’ambito marxiano) del suo pensiero e della sua opera poetica. Eppure – forse è qui il punto che ci divide –vorrei sostenere ancora oggi la necessità di distinguere fra profetismo biblico e comunismo, spostandomi dalla sintesi  che Fortini ne fece[5] e senza scivolare – spero - nelle tronfie contrapposizioni religione/scienze o mito/scienze.
Vorrei, perciò, che lo studio su Fortini o sulla sua poesia fosse più  calato negli avvenimenti storici del ‘900 e tenesse più conto dei dubbi e delle ambiguità dell’oggi. Uno di questi dubbi riguarda per me quel percorso teleologico di pianto in ragione (44), che  ritengo sintesi parziale di una parte soltanto della vita di Fortini. (Non credo dell’ultima o della giovinezza. Poi dirò...). Nel tuo libro, invece, trovo tutti i fili che tengono legata l’opera poetica di Fortini a una tradizione (quella biblica, Benjamin (8), Dante-Auerbach(8)), ma mi sembrano attenuati o posti sullo sfondo gli elementi che potrebbero forse entrare in conflitto con essa: quelli, cioè, che la trattengono di più alla storia de Novecento, al “movimento operaio”, alla vicenda del “comunismo novecentesco”, ai movimenti intellettuali cui,  attivamente credo, partecipò (e da cui pur dovette essere condizionato  ma anche molto incoraggiato nella sua ricerca strettamente letteraria, critica e poetica). Non dico che accentui troppo un distanziamento dalla storia, che forse fu tentazione costante dello stesso Fortini o “scelta” dei suoi ultimi anni. Ma un po’ la storia e il suo peso postitivo/negativo la vedo messa tra parentesi o data per assodata, come se non ci fosse bisogno di tornarci su.  E perciò la “decostruzione ideologica dell’avversario” di Fortini mi sembra fondarsi più su base escatologica che sulla concreta base storico-politica  della sua esperienza (11) e a me pare troppo “epocale”, come si avesse fretta di tirarsene fuori.

3. Sull’allegorismo.

In Una facile allegoria (II) condividi l’idea di Luperini che il comunismo di Fortini sarebbe un “pieno” che nella sua poesia si presenterebbe come allegoria “vuota” (206). Se ben comprendo, sembra che il comunismo di Fortini stia tutto nella sua poesia e non può essere che allegorico. Anche qui non mi rassegno. Credo che - in analogia con quanto appena detto sul suo comunismo “profetico” - un’indagine più accurata debba vedere sotto un’altra luce la scelta allegorica della sua poesia. Quando, ad esempio, trattando della parentela fra Brecht e Fortini[6] e della divisione amici/nemici (che - aggiungo - nella realtà non è così evidente come quando la troviamo rappresentata sul piano della cultura marxista o cristiana), volessimo considerare seriamente “quel se stesso confuso che partecipa della confusione di tutti” (149) e riflettere sulle prove numerose che “tutto continua – può continuare – come prima, senza che gli uomini si ribellino, senza che la necessità del mutamento si faccia strada nella loro coscienza” (150), cosa pensare  del rafforzamento dell’“istanza volitiva” (151)? Non possiamo negare  un suo tratto compensatorio. Né sorvolare che anche l’allegoria è forma compensatoria (anche se non riducibile a sola compensazione). La “religiosità” di Fortini e il suo allegorismo sono anche contraccolpi “difensivi” - penso io - per esperienze, personali e comuni, fallite. Non mi va che diventino emblemi  solo positivi o “modelli”. Non mi va di considerare l’allegoria il “massimo” di comunismo che si può “dire” in poesia. (In una recente lettera a Pietro Cataldi, chiedevo forse in modo troppo provocatorio fino a che punto oggi dobbiamo o ci costringiamo ad essere allegorici...).
Ricompare a questo punto, ancora una volta, la questione di fondo che mi preme e che  nel tuo libro mi pare fondamentale:  quella del rapporto tra cristianesimo e comunismo. E’ questione strettamente legata a quella dell’allegoria come forma “provvisoria” e allusiva di una Totalità, di un Pieno da conquistare. E sono ancora incerto: se da un lato può semvbrare positivo che una visione totale dell’umano (del comunismo) sia stata conservata e trasmessa sotto i veli del cristianesimo non sacerdotale (Bloch) e ora - in questi tempi tornati grami -  potrebbe essere salvaguardata dalla poesia allegorica di Fortini, dall’altro temo - ripeto - una sovrapposizione (idealistica mi pare) di tale visione “escatologica” all’esperienza storica. Comune di Parigi, rivoluzione russa, esperienza maoista,  moti del ’68  mi sembrano eventi sempre sminuiti o quasi delle brutte copie (in senso platonico) di una visione totale e platonica. Proprio perché guardati dal punto di vista della Totalità, tali eventi storici appaiono al massimo come  suoi segmenti sempre parziali e mai veramente autonomi. E poi – domanda scandalosa per dei poeti e degli uomini di cultura –  gli eventi contano di per sé o solo per la parte tradotta in simboli religiosi, in allegorie poetiche o rappresentazioni scientifiche? E la parte di  tali avvenimenti che sfugge  alla nostra presa? A me pare - lo dico  con l’accetta - che la religiosità  può quasi scoraggiare la voglia di “stare dentro” agli eventi storici o di costruire anche secondo progetti più approssimativi (da non confondere con quelli  offerti  dai Potenti...) e magari non del tutto rispettosi della Tradizione (della Totalità); e che l’allegoria sembra tener lontani da mondi più sfuggenti e ambigui.
I due capitoli, L’educazione e Il paesaggio e la gioia. Osservazioni su Leopardi in Fortini,  ben si prestano ad un approfondimento di quanto ho qui azzardato. In essi mi pare di vederti avviato ad una rielaborazione dell’immagine di Fortini più indipendente ed originale rispetto ai consueti studi “fortiniani”. Il primo, che si sofferma su un aspetto della biografia di Fortini a me poco noto, mi ha incuriosito. Ma mi sono chiesto se la modalità tutta interiore (religiosamente condizionata), con cui quella passione artistica  fu vissuta[7], vada presa tutta per buona.  Questo ritratto (o forse autoritratto?) di Fortini “as a Young Man” conferma la visione matura (hegeliana?) che Fortini ebbe dell’arte: importante, ma parziale, da superare (a causa dell’“enfasi portata [dall’arte] sull’elemento sensuale” (28). Tu accogli in pieno la sua “condanna postuma di un atteggiamento culturale anti-storico e anti-materialista, non senza risonanze nicciane” (37) e del “peccato giovanile e fiorentino dell’io” (36) espressa con vigore in Sestina a Firenze.
E se non lo seguissimo su questa strada?  E se, andando oltre la vulgata di  se stesso lasciataci dallo stesso Fortini e accolta dai fortini ani, che del primo Fortini “mettono in rilievo i motivi ‘resistenziali’ e la prospettiva etico-utopica”, scavassimo di più  in questo suo “momento ‘nichilistico’, di deiezione e angoscia” (37) o sull’“elemento sensuale che era così in evidenza nell’Educazione, in quel corpo bruciante di ragazzo sedotto dalle forme dell’arte” (38) e - si potrebbe aggiungere senza ipocrisie – da quelle della vita a cui esse alludevano? (E magari l’associassimo ad un altro consimile, che mi pare di poter cogliere nell’ultimo Fortini e che tu tendi a ridimensionare...)?
La tua interpretazione alla fine accoglie dell’arte l’elemento utopico, masaccesco e non quello sensuale, qui riferito alla Sala della Niobe (44); e “chiude frettolosamente”, senza ulteriori domande quella  giovanile “dialettica tra nichilismo e speranza” (38) allora drammaticamente aperta in Fortini.  Mi pare che qui tu abbia sfiorato un nodo scottante, ma abbia esitato a esplorarlo a tutto campo. (Se procedessimo, aggirando l’autorappresentazione che ne ha dato lo stesso Fortini[8] e appoggiandoci forse fin troppo ai successivi sviluppi “adulti”, penso - ad esempio - che tutto il suo rapporto con Pasolini potrebbero essere ripensato sotto altra luce e, forse, anche la visione dell’arte “incapace di uscire da sé, di vedere oltre il muro” (38). Bestemmio?).
Anche ne Il paesaggio e la gioia. Osservazioni su Leopardi in Fortini mi pare ci sia un’oscillazione feconda, ma presto - vietandoti interrogazioni eterodosse - interrotta. Prima, infatti, rilevi la presenza di un certo tipo di poesia fondata sull’io e sulla memoria  dell’infanzia (E penso a tutti i tuoi studi che  ho letto in Interazioni[9]); ma poi rientri presto  nella  visione, non falsa ma troppo “canonica”, di Fortini poeta “adulto” e “civile”. La prima operazione[10], spinta a fondo, metterebbe in ombra o porrebbe sotto diversa luce quest’ultima, consolidata immagine di Fortini? Apparirebbe a qualcuno (non a me, di certo) un ripescaggio inopportuno del “privato” e delle convulsioni “giovanili”? O aprirebbe  spiragli per una ricerca che non si accontenti di “poeti-statue”?  Tu mi sembri andare con una certa costanza in questa direzione, rivalutando aspetti (in questo caso il leopardismo di Fortini) considerati  forse marginali  dallo stesso Fortini maturo e dai suoi interpreti, ma lo fai - mi pare - con un sovrappiù di timidezza e ossequio. Forse il rispetto del pensare dialettico ti impone di mostrare la polarità contraddittoria  delle istanze di Fortini, ma di affrettarti ad un (inspiegato per me, mi viene di aggiungere) superamento.  Possibile che Fortini non può essere mai stato nichilista, “pacificato”, “amoroso”? Ed è e deve rimanere sempre ospite ingrato a tutto tondo?[11]
Chiudo provvisoriamente qui. Con stima e affetto.
 Ennio




[1] Un piccolo ma non trascurabile esempio: Ipsilon, l’associazione culturale che abbiamo fondato a Cologno 10 anni fa, era nata all’insegna  di Fortini. Col  tempo solo il guscio è rimasto formalmente  fortiniano,  ma le pratiche individuali dei partecipanti al piccolo gruppo si sono disperse. Il momento fortiniano-comunista è diventato di facciata  e le pratiche sono venute a patto – come nei partiti-chiesa – con il mondo criticato.  Eppure faccio Samizdat Colognom!  Ma quanto in continuità con la lezione di Fortini?  Mi chiedo spesso in cosa consisteva la mia affinità con Fortini. Sta, forse, in un mio elementare cristianesimo, che ha profonde radici nella mia esperienza del dopoguerra al Sud di semipovertà e di isolamento e che mi aveva spinto, immigrato a Milano, a una critica nelle situazioni pubbliche  (Cologno, scuola) radicale, ma sempre più da isolato. Tale critica in parte resta per me irrinunciabile  e in parte    è una “condanna” a cui so di non poter più sfuggire. Quest’atteggiamento era mio già prima di conoscere Fortini.  Sulla spinta dei suoi scritti, s’era però rafforzato. Ma pur congeniale e vissuto, ne sento l’inadeguatezza rispetto alla “realtà” quotidiana o generale (per quel che afferro del generale...), che nei suoi svolgimenti è andato sempre di più contro i miei desideri e le aspettative costruite assieme ad altri dal ’68 in avanti. L’area culturale in cui avevamo da allora operato (diciamo di “nuova sinistra”) ha man mano designato  questo cambiamento o con eufemismi ancora speranzosi (“crisi del marxismo”, “critica della Politica”) o con un oggettivismo avanguardistico ebbramente futurista (“postmodernismo”, “postmodernità”).
[2] Tu sembri propendere per una militanza non più riconducibile  ad una “qualche dottrina” o formazione politica. E  mi va bene. Ma se essa consistesse “anzitutto e una volta per sempre, [nel] mettersi dalla parte degli sconfitti e contro la “trionfante organizzazione delle carogne”” (11), non risulterebbe troppo generica e idealistica?
Quel mettersi dalla parte degli sconfitti è molto “cristiano”, ma fatto interiore e ideale di solito; e trascura che il comunismo delle origini non era moto di sconfitti. La sconfitta, ora evidente, non viene estesa a tutto un passato storico punteggiato di lotte cruente e la figura del proletariato non viene a coincidere con quella delle vittime predestinate?
[3] Mi riferisco anche al documento (ora articolo su L’ospite ingrato 1999) di Luperini, Essere comunisti oggi, da te fornitomi a suo tempo. In una lettera, che gli indirizzai a proposito di un suo libretto, Il professore come intellettuale, commentai così quel suo scritto:
“Il comunismo vi viene presentato come un valore e coincide in particolare con il valore della comunità. Tanti anche qui i miei dubbi. Telegraficamente in questa sede:
- Trovo troppo sbrigativo il giudizio sul “comunismo storico” ridotto a «valore assoluto», «utopia», «”falsa coscienza” di Stati nazionali»;
 - In cosa si differenzierebbe il valore comunismo dagli altri valori? Sulla base di cosa (esperienza? concetto? soggettività del sentire?) gli uomini dovrebbero  ritenere che «è meglio ciò che unisce da ciò che divide»? In base ad un’ontologia? E allora non si ricadrebbe in una forma di assolutismo? Se il comunismo non è valore dimostrabile, in base a cosa può rendersi visibile? Non è più una certezza. Va bene. Ma perché è possibile?
- Questo comunismo valore «non si identifica con un progetto». Perché non ce ne sono di credibili oggi? Perché qualsiasi progetto sarebbe deleterio? Ma come non preoccuparsi del fatto che ad «abolire lo stato presente delle cose (Marx)» ci pensano più spesso  i processi di ristrutturazione capitalistica (le rivoluzioni dall’alto) che i processi di rivoluzioni dal basso. Non mi pare incoraggiante o consolante se oggi essere comunisti significhi  genericamente «essere in cammino» o «credere» («che l’eguaglianza e la fratellanza degli uomini siano preferibili al dominio di una piccola parte sulla grande massa dell’umanità ») o «preferire».  Su questo, a livello di idee e di auspici o desiderio, ci siamo come minimo dai tempi di Cristo (in teoria). E «l’esigenza di rimuovere le cause materiali e politiche, ecc....» resta ideale nobile, ma in aria, anche dopo Marx.
Il comunismo era stato pensato  non solo come prosecuzione ideale, ma inveramento umano reale del cristianesimo (alla Bloch). Tu lo vuoi ripensare solo nei  confini (limitati) dei valori «laici e relativi»? Ma il carattere «pragmatico, parziale e caduco ma necessario» dei valori non lo riconoscono anche i liberali?
-.Il capitalismo è solo disgregazione, è solo nichilismo? Davvero manca di ogni legittimazione? Di fronte a chi? Chi può chiedergli conto dei bombardamenti sull’Irak, delle dimenticanze sull’Algeria?
- «La ricerca del senso della vita» non equivale automaticamente a bisogno di comunismo o di senso comunista (Tanti,  proprio perché hanno introiettato il senso del limite o dei valori laici, lo trovano in professioni e consumi ben poco comunisti).
- Come mai  una parte di noi stessi collabora così facilmente ad affondare gli albanesi? Perché, allora, mettere tra parentesi l’aspetto critico negativo (presente in Marx, Nietzsche, Freud) che ancora cerca di scavare in queste oscurità? Perché la critica negativa dovrebbe coincidere con il nichilismo?
- Nei ««limiti della condizione umana» rientrano o no anche i rapporti capitalistici? La differenza fra comunismo e capitalismo si ridurrebbe alla gestione comunitaria o egoistica dei limiti della condizione umana?
- Unire gli uomini? Ma per che cosa?
- E infine: non vedo nessun collegamento fra questa idea di comunismo comunitario e il lavoro.”
[4] Scrivi anche: “Si potrebbe discutere di quella “fede opaca” e di quel “vero”, se siano da interpretarsi in una prospettiva decisamente ‘religiosa’ o meno”(14).
[5] Ciò implicherebbe una nuova visione del comunismo, che non si lasciasse tentare dalle analogie coi comunismi religiosi del passato (cristianesimo compreso), che non si vedesse  già prefigurato in qualche nobile Tradizione, che forse dovrebbe essere tutto inventato. Sarebbe però oggi velleitario che io tentassi di  balbettare di più in questa direzione e mi fermo.
[6] “Separazione-contrapposizione tra l’io, partecipe di un “noi” che è l’insieme degli oppressi, e appunto “quelli”, o per dirla sempre con Brecht, “chi sta in alto”” (148). Etc...
[7] Tu scrivi che fu vissuta conflittualmente in “un contesto psicologico in cui la Colpa e la Punizione, il Desiderio e la Trasgressione sono strettamente intrecciati ed in tensione fra di loro” (26) e sfocerà – secondo la ricostruzione dello stesso Fortini nel Cani del Sinai – nella rimozione dell’arte (della pittura) (26).
[8] Anche nelle considerazioni sulla traduzione fortiniana de Il ladro di ciliege trovo un’adesione eccessiva all’interpretazione  che Fortini ha dato di quella poesia; e un cedimento, pur da te temuto, all’atteggiamento da parafrasatore più che da critico.
Il rischio è di non aggiungere altro a quanto da Fortini  detto e di tacere sullo scarto fra le affermazioni più fiduciose (“la profezia messa in scena dal ladro è profezia di una fine – la fine del mondo borghese: quindi della lotta di classe e delle battaglie fra gli uomini” (157)) e la coscienza della crisi o di una fine (del comunismo o, almeno, di un certo comunismo) che caratterizza la fine del ‘900. È vero che  affermi: “se ci ponessimo di fronte al testo da un punto di vista diverso da quello di Fortini”(158). Ma questo altro punto di vista non è mai  attraversato da dubbi e ti accontenti  di cogliere la coerente adesione di Fortini alla “prospettiva brechtiana” (159) o la sua prossimità alle Tesi di filosofia della storia  di Benjamin (160). Come dire che le conferme di quanto Fortini afferma vengono da alcuni dei suoi autori preferiti e antenati. Ma il confronto personale con la “realtà” storica, quotidiana,  anche attuale è eluso. Forse perché quella ”realtà” è un inganno, non è “vera”?
[9] Luca  Lenzini, Interazioni
[10] Quella di scovare i segni residuali di “”appartenenza”” di Fortini a Firenze, alla “”città nemica”” (58) o  mettere in luce che “due linguaggi (due tradizioni) coabitano nei versi della Città nemica, e più in generale in Foglio di via: quella dantesca dell’esule, che tende all’allegoria e risuona di echi biblici ( la “morte seconda”), e quella della soggettività, del ricordo, dell’idillio”(60).
[11] Infatti scrivi:“in ogni caso, la poesia di Fortini è già, e resterà poesia della disappartenenza: chi volesse trovarvi altre tracce di un rapporto pacificato con il paesaggio, angoli di quieto abbandono alla memoria ( o nuove modulazioni della lingua della soggettività) non raccoglierebbe molto di più nel percorso che da Foglio di via porta a Composita solvantur” (60). A me sembra  un avvertimento rivolto a te stesso....

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