*Velio Abati (Grosseto 1953). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, su Andrea Zanzotto e Luciano Bianciardi e curato il volume Franco Fortini. Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994. Ha diretto per vari anni la Fondazione Luciano Bianciardi di Grosseto ed è autore di racconti e poesie.
Cologno Monzese 30 giugno 2000
Caro Velio,
non vorrei lasciar passare troppo tempo prima di dirti qualcosa del tuo Motivi, che ho letto con coinvolgimento e interesse. [...].
Prendi questi appunti solo come un tentativo di approssimazione e, se e dove ho toppato, fammelo sapere.Con stima e simpatia
Ennio
- Il titolo non mi è molto piaciuto. Lo trovo troppo neutro rispetto alla concretezza del materiale narrativo (specie delle due prime sezioni).
- Ho avuto qualche difficoltà a individuare la vicenda parallela, mi pare, e la funzione narrativa dei brani segnalati con l’asterisco. Stralci del diario di un anno (dal 1 aprile al primo aprile, se non sbaglio). Voce femminile che parla di una lei (sua madre), di un certo Pin, soprannome (65) del suo professore universitario. Lei è una studentessa, trentanni passati (40) che prepara a rilento una tesi di laurea o (come mi pare di poter ipotizzare da pag. 107) una narrazione. Va in vacanza con Leo (14), il suo incerto fidanzato (73). La funzione di questi brani mi è parsa essere quella di stabilire un contrasto fra l’immediatezza persino banale del quotidiano odierno e il tono prevalentemente rievocativo, memoriale, a tratti mitizzante degli altri brani più estesi. Non ho avuto tempo per stabilire se gli inserti del diario sono pensati per quella parte del racconto ampio in cui sono inseriti o traversano a mo’ di intervalli “in libertà” le tre sezioni.
- Molti sono gli episodi narrati in modo davvero coinvolgente. Tra questi restano in mente, per l’atmosfera densa di significati profondi, quello – molto bello e comunque delicato - dell’iniziazione sessuale da ragazzi (Mario e Maria, pag. 42 circa) e quello della caccia alle spinose (pag.68 circa). Ma anche altri - la figura del nonno-narratore (21), il pullman dei Piedineri e i ricordi di scuola elementare (49), ecc. – mi paiono sempre ben misurati. Il narratore c’è e mi pare anche fornito di un passo antico, positivamente ottocentesco. Per alcuni versi ho pensato a Nievo, ma vado per ricordi liceali. Solo che il narratore è in contesa col saggista (ovviamente, dirai, visto che siamo a Novecento finito) e, a tratti , mi pare con un intento descrittivo (positivistico? antropologico?) molto forte. Qui vedo emergere dei problemi.
- Nella lettura ho puntato ad isolare delle zone che chiamerei di “diario intellettuale” (Ad es. pag.10-13), dove l’intento saggistico è preponderante. E’ un intellettuale d’oggi che ripensa il suo passato, la sua infanzia (“Ma allora non sapevo ancora niente di tutto questo”, pag. 18). Il precedente proustiano e la lezione di Zanzotto fanno da sfondo “dotto” e “filosofico” (Cfr. riflessioni sulla vastità dei silenzi umani, pag. 16). Il passaggio dalla meditazione al ricordo preciso (pag.18), che non è mai del tutto idilliaco ma realistico e spesso volte crudo, mantiene una certa tensione fra i due poli (narrativo e saggistico) della tua scrittura.
- Il ricordo, anche quando è frammento, viene come “inguainato” nella riflessione ad alto livello intellettuale del soggetto odierno, che parla e rievoca in modi elaboratissimi (Qui la lezione di Proust...), è avvertito dei tranelli del rammemorare (“Ma chi crede che lo svelamento sia un fatto squisitamente razionale?( pag.20) e fa riferimento a precisi dibattiti culturali o ad autori di riferimento (Dostoewskij ad es,, pag.41).
- A me questo andamento spurio va bene. Ma mi pare che esso, per non risultare costipato, dovrebbe potersi ampliare, “sfrenarsi” per lunghe pagine.
- L’intento descrittivo mi pare presente, ad es., negli episodi che riguardano i funerali e la festa della trebbiatura ( pag.32), la raccolta dei balzi (pag.32), l’uccisione del maiale (63). Io che ho solo pallida memoria dell’andamento della vita in campagna, assaggiata appena da bambino e poi ritrovata attorno all’adolescenza soprattutto nella lettura “arcaico-mitizzante” di Pavese, resto ammirato dalla precisione linguistica e dall’attenzione ai particolari. Ma è un mondo perduto e descriverne degli aspetti con precisione non fa scattare – parlo per me – la molla dell’interesse da parte di un “metropolitanizzato”. Quel senso della continuità che caratterizza l’infanzia della voce narrante (“Vivevo, da sempre, nella convinzione che un filo legava i miei nonni a ciò che avrei fatto”, pag.21), quel sentirsi radicati in una epopea familiare (l’edificazione del podere, pag. 21) e in un universo parentale o sociale affine, anche se con grosse tensioni (la figura di Caporeparto, pag. 30; il nonno (materno?) in dissidio con la famiglia del narratore, pag. 57) sono venuti meno. E allora si vorrebbe più concentrazione (io vorrei più concentrazione...!) sul “nodo che ci prese e ci trasformò”( pag.40), sul “travaglio che ci mutò” ( pag.58).
- Il tuo stile di narratore però è prevalentemente allusivo ed attento a render conto soprattutto delle atmosfere emotive vissute dal narratore. Sfugge perciò certe “curiosità spicciole” del lettore o tende (con predeterminazione?) a spiazzarlo.
* Nota
Il testo è stato pubblicato in versione più ampia sul sito www.poliscritture.it
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