Note e riflessioni sulle scritture di amici e amiche

Alla ricerca di un senso nel mondo instabile e molteplice che poco conosciamo

Ai visitatori. Su questo blog (abbozzato nel 2010) pubblicherò le mie note di lettura sui testi editi o inediti. Nel caso di testi editi ritengo di poter esercitare liberamente il comune diritto alla critica. Per gli inediti, se necessario, chiederò prima l'autorizzazione ai diretti interessati. [E.A.]

15 luglio 2011

venerdì 15 luglio 2011

Su Silvio Aman*
Devozioni
Dialogo libri
Olgiate Comasco 2003

*Silvio Aman, poeta e saggista. Nel 2000 ha fondato e diretto l’annuario “Hesperos”. Ha pubblicato per la poesia Sinfonia Alpina (2004) e Nel cuore del Drago (2005). Tra i saggi: Memoria, informazione e mimetismo in Teatro naturale di Giampiero Neri (1999) e Robert Walser. Il culto dell’eterna giovinezza (2009). 

 23 aprile 2005


Caro Silvio,
ho letto con l’attenzione che mi posso concedere in queste settimane la raccolta che mi hai inviato (e di questo ti ringrazio ancora) e qui mi limito a raccogliere e a mandarti dei primi appunti sulle impressioni che i tuoi versi mi hanno suscitato. Ovviamente mi perdonerai per le forzature interpretative o le incomprensioni.

Parto dal lessico. Le tue scelte mi permettono di farmi un’idea più precisa del tuo orientamento culturale generale (che non conosco, ma intuisco in parte anche dallo scambio che abbiamo avuto sul problema della “moltitudine poetante”). È un lessico medio alto, caratterizzato da  una terminologia non comune (filattèri, un colombo ‘ cambiavista ’, tuga, cangianza, millenne) e che attinge a francese e tedesco con dimestichezza. Anche le citazioni in exergo (quella austera di Simone Weil, quella di Pater) o  i riferimenti a personaggi della mitologia mi segnalano le tue “paternità” culturali o i modelli di riferimento. Ne deduco una frequentazione non provinciale dei punti alti della cultura borghese europea del primo Novecento.

Il tono della tua poesia a me sembra  colloquiale e sobriamente descrittivo, come di uno  assorto in una meditazione introspettiva a forte carica religiosa. Non per caso hai intitolato la raccolta Devozioni  e il tuo affetto reverente si rivolge ai paesaggi, alle memorie, a momenti struggenti dell’esistenza, alla natura,  a luoghi perduti, alla morte  sublimata – mi pare - con una grande pacatezza.
Siamo – per la sua selettività delle scelte linguistiche e i toni emotivi - sul grande filone della tradizione lirica purista-petrarchesca. Pochi sentimenti (di nostalgia, angoscia, noia, disincanto, attesa) tornano anche con la loro inevitabile monotonia e vengono esplorati   ripetutamente con risorse di linguaggio certamente ampie, fortemente selettive e  a volte preziose   (per me addirittura squisite come ne IL CACCIATORE).  Rari gli abbassamenti di tono e di lessico  in un ambito più moderno pragmatico-industriale («Quasi che estesa fosse la tua gioia/Anche al sistema elettrico»). Una metrica fluida corrobora quest’orientamento.
Quest’adesione ad una grande cultura introspettiva e appartata dal moderno e dai sussulti laceranti della storia mi pare  la cifra generale della tua ricerca. Dal mio punto di vista che alla storicità non sa rinunciare mi pare un pedaggio (ma può essere sentito anche come un privilegio, una distinzione forse) che  tu paghi per metterti in ascolto del (dell’anima – penso - più che del corpo/anima) o disporti a delle “rivelazioni”  dell’ignoto («A volte, quando preso da stanchezza/Non crederesti piú,/ E come una fattura l’ abitudine/ Torna di nuovo a imporsi,/Non sai chi sia, se un dio che passa a caso/ O un vento lieve a sera»). 
Questo tipo di ricerca poetica è accompagnato  quasi necessariamente da trasalimenti. La voce poetante è sotto minaccia e a volte fermata dall’imporsi di fantasmi , che restano vaghi, mai nominabili storicamente con sicurezza («Un nero di scomparsi invendicati,/I loro volti inermi»). M’affascina  un po’ (come una  qualità da me perduta o abbandonata strada facendo...) questo grande senso di raccoglimento e anche di disincanto che  trovo nella tua poesia. La vedo pressata da un’angoscia “lieve” che non turba mai la dizione, la fluidità del metro, la giusta scelta dei nomi («E il lago infonde anestesie gentili,/ Ti pare che l’ angoscia si assopisca»).
Ci trovo anche una solennità spirituale, che tiene a distanza il “mondo” («E la città che smercia il sangue munto/ Ai suoi vitelli d’ oro/Appare offerta a un tratto/A un’ isteria gentile») e sa badare ai sentimenti sotterranei e non banali («E nel silenzio che precede i tuoni/ Senti anche tu che un fiume/ Ha già afferrato i corpi…/Tornano forse amore e dolci unioni/In questa strana sera ?»). Colloquio fra anime (Cfr. Corso dedicata al tua madre morta), dunque,  e una predilezione che non irrido assolutamente per  quello con figure femminili addolorate (Altre acque) o per la bellezza femminile accostanta con particolare pregnanza  e leggerezza («Eleganti e sottili :/Cosí le vedi in via dell’ Orso o al Duomo,/Come su passerelle,/Occhiali neri e chiome bionde al vento,/E non le turba nulla»).
A me pare che il femminile da te vagheggiato abbia qualcosa di proustiano come in CLOISONNÉ.  Mi ha colpito poi che molte delle donne evocate siano attrici, cantanti  partecipi del mondo più fuggevole dell’artificio (dell’arte) e dell’eleganza (Vedi ITINERARIUM oppure: «Egli diceva amore…/ E a chi,/A quella che portava un cesto in capo/ O al vento, al niente, al suo fondale oscuro ?»). E  non vedo incoerenza tra l’atteggiamento religioso di fondo della tua poesia e questa insistenza ad interrogarsi su immagini d’arte e quindi riflesse (LA BOTTEGA DELL’ ANTIQUARIO) oppure  su figure femminili (MARY ED EDVIGE) bloccate in foto o dipinti d’arte, non più “reali” o almeno   senza pesantezza corporea, evanescenti, filtrate attraverso la malinconia e il senso dello scorrere del tempo (il tempo perduto..).
A volte l’angoscia che  queste figure-spiriti destano  è estenuata,  troppo addolcita, direi estetizzante («E se incedi oltre il Plinius,/Quella che chiami Promenade des Anglais/O dove nacque Cosima,/Tu senti irresistibile il tormento/ Di questi arrivi e imbarchi –». Oppure «– Poi, dove vedi bene i solidi,/Questi pesanti Coppedè, ad esempio,/Sei come altrove, in Rue du Rhôn», oppure «Quando la sera nasce dalla luce/E avvolge nel suo sogno luminoso/L’ oscurità del tempo,/È un braccio d’ aria mite ai fiori,/Quelli che in panna e feltro adori/ Nell’ Amelanchier./In ombra poi le forme che ti ascoltano,/Ora liete, ora in un destino avverso.»)
Tutti  questi attributi della tua poesia io tenderei ad inquadrarli – ma posso sbagliarmi - nella tradizione crepuscolare. In MEMPHIS o PASQUA ma anche altrove trovo  qualcosa di gozzaniano per l’eleganza narrativa quasi calligrafica, per il sentimento di nostalgia - sottile e contenuto, mai  lancinante - dell’infanzia (Un’ illusione di lontane feste), per la tendenza all’ascolto della voce di uno sconfitto ma sempre in un tempo che è fuori dai vincoli duri e precisi della storia  (EN ATTENDANT L’ ORAGE) che si viene a trovare  fra «il nulla e il gioco delle apparizioni»,  per la tendenza a giocare il mito contro il presente («Vedi le ancelle esporre nella luce/I loro corpi biondi/ Come le ha fatte Lei, Lilith-ciprigna,/E in mezzo ai fumi di benzina dici :/– È un giorno d’ oro.»), per l’alleggerimento della tensione religiosa («È Dio che forma inchiostro nero ai giorni/Dentro il suo corpo ironico ?») o mitica («Della tua strana fiaba :/C’ era una volta…/Ma non chiedere quando,/È in fondo ciò che accade sempre, /Come del resto sempre partono,/Non viste, delle barche nere/In fondo, oltre le cateratte d’ oro.»)  e i toni  sempre elegantemente allusivi («Poi ti ricordi : a Basel, verso il treno,/In quella sera opaca,/Tu non saresti piú tornato indietro,/Sciolto nei giorni in cui si è perso il filo.»).
Questo gozzanismo di base è qua e là spezzato da punte di surrealismo («Pareva non finisse mai il crepuscolo./Dal giorno in cui la luna perse sangue/O al sole venne buio agli occhi e svenne». Oppure: «alla notte infilano le lance/ In petto») o  s’intreccia con una sensibilità da flaneur. Tanto che, un po’ per provocarti, tenderei a definirti un Benjamin gozzaniano, che si è abituato a tenere ben stretta (anche a compiacersi?) la sua leggera angoscia («La tua leggera angoscia è un bene.») e a farla lavorare in poesia.
Se dovessi concludere provvisoriamente la mia raccolta di impressioni con un abozzo di giudizio sul senso profondo della tua poesia direi questo: ci sento una svalutazione (heideggeriana?) dell’interrogazione sulla storia e la sua sostituzione  con  la ricerca di un intinerario di saggezza (Dovrai imparare il mai ?»Oppure: «Includi nell’ angoscia che ti accerchia/ I tuoi germogli, e non dimenticare/ Anche le cose lievi,/Ciò che non sta fra questi volti occlusi»).
Ti riconfermo la mia stima  e spero nella continuazione del nostro scambio.
Un caro saluto
Ennio

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