Note e riflessioni sulle scritture di amici e amiche

Alla ricerca di un senso nel mondo instabile e molteplice che poco conosciamo

Ai visitatori. Su questo blog (abbozzato nel 2010) pubblicherò le mie note di lettura sui testi editi o inediti. Nel caso di testi editi ritengo di poter esercitare liberamente il comune diritto alla critica. Per gli inediti, se necessario, chiederò prima l'autorizzazione ai diretti interessati. [E.A.]

15 luglio 2011

domenica 17 luglio 2011

Su Franco Brioschi*
Un mondo di individui:
saggio sulla filosofia del linguaggio
(letto in fotocopia
poi Unicopli, Milano 1999)

* Franco Brioschi (19452005). Fu docente di Critica e teoria della letteratura, Stilistica e semiotica del testo all'Università di Milano, e collaboratore di importanti riviste. Come consulente di Giulio Bollati contribuì alla nascita della casa editrice Bollati Boringhieri. Altre notizie su http://it.wikipedia.org /wiki/Franco_Brioschi                 

  

10 maggio 1999

 Caro Brioschi,

              avevo compiuto a suo tempo una marcia di avvicinamento ad alcuni tuoi lavori (su Quaderni Piacentini, La poesia senza nome, Elementi di teoria letteraria) e un amico insegnante, F. T., mi stava indirizzando da te per un parere su mie poesie.
Poi ci sono state le derive degli anni ’80, e solo adesso, in un tempo diverso e per me alquanto orrido, ho trovato lo spunto per incontrarti alla ricerca di un possibile terreno di dialogo collegabile all’amicizia e alle iniziative culturali da prendere qui a Milano dopo la morte di Sandro Briosi[1].
Mi hai proposto  il tuo ultimo saggio, Un mondo di individui. L’ho letto, con un grado di concentrazione disturbato dai notiziari di guerra; e, come facevo di fronte ai lavori di Sandro, metto le mani avanti dichiarandomi lettore guardingo, perché consapevole in anticipo  dei propri limiti e forse dei diversi orizzonti di attesa che abbiamo.

 Ma anche un po’ “tifoso”. Infatti, credo di aver maturato, per altre vie, nutrendomi soprattutto della critica letteraria di un Fortini o di un Cases e di letture storico-politiche, un’esigenza di non disancorarmi dalla cultura razionale (nel senso più ampio e civile del termine), malgrado le mode e gli effettivi ‘buchi neri’ di questa tradizione.
Poco toccato, perciò, dalle logotecnocrazie, sono ben disposto a contrastare “un’immagine del linguaggio come di un codice indipendente e autonomo” e urtato dai discorsi sul testo che “vuole”, “decide”, “agisce”, “interroga” il suo lettore”, come tu ben scrivi. Concordo, perciò, pienamente sulla fondamentale difesa della “razionalità” (non ’strumentale’ o intesa come puro calcolo). E’ la parte del tuo saggio che ritengo decisiva o che più afferro, riesco a seguire e mi appassiona. 
Può essere questo il terreno di base per il nostro possibile dialogo?Solo in parte, mi dico. Perché sento di essere esterno o a rispettosa distanza dalla tradizione analitica che tu utilizzi, né riesco ad appassionarmi ai suoi aspetti più specialistici. Li riconosco necessari e coerenti  con il tuo obiettivo di misurarti da vicino, pur dichiarandoti  non filosofo, con gli oggetti “scientifici” e i protagonisti di punta della linguistica; ma io li ho trovato francamente faticosi. Penso a causa del marchio umanistico della mia formazione, ma anche per la collocazione di massa ormai definitiva e vincolante del mio impegno culturale (sulla quale tanto insistevo anche con Sandro).
Riconoscendomi, come  dicevo anche a te durante il nostro primo incontro, intellettuale massa, non credo però di essere chiuso alle questioni di teoria della letteratura e del linguaggio.
So, però, di non poter mai più disporre della pazienza (e del tempo) necessari allo scienziato o allo studioso universitario. So che devo misurarmi con l’ansia e l’impazienza – sentimenti a me familiari e che ho imparato a considerare non del tutto negativi - del militante, che cerca “armi” da usare nel rapporto quotidiano e opaco con gli altri.
Quindi devo confessarti con un certo imbarazzo che, giunto alla fine del tuo saggio, non riesco a trovare una zona ferma, un punto intermedio a mezza via fra  ricerca universitaria e saperi di massa, sul quale strutturare il possibile lavoro del gruppo, che ho ipotizzato e  avuto la presunzione di sollecitarti.
Detto questo con sincerità, non so se ritirare la mia richiesta troppo approssimativa o affidare alla prosecuzione diretta del nostro dialogo un suo approfondimento; o tentare altri punti d’incontro più consistenti e soddisfacenti per entrambi.
Lascio aperta la questione. 
Con stima
Ennio Abate

P.s.
Qui sotto un elenco di appunti di passi dalla fotocopia del  tuo Un mondo di individui con cui mi sento in sintonia. (In grassetto, invece, pochi dubbi-obiezioni).

Nota

1. La razionalità non è riducibile a calcolo (11); non si deve confondere la proprietà (razionale) di una descrizione con la proprietà dell’oggetto descritto (10).
Se i sistemi simbolici non sono riducibili a calcolo, questo non vuol dire che la comunicazione sia un “fenomeno paranormale” o che non c’è possibilità di comunicazione alcuna, ma solo “Deriva di Segni che si muovono senza direzione né scopo entro il gran mare dell’Essere”(12).

2. Nessun oggetto “solo per il fatto di essere un oggetto così e così, vale perciò stesso, assolutamente e indipendentemente, come un simbolo di questo o quel sistema. Al contrario, uno stesso oggetto, ad esempio una certa traccia di inchiostro, può funzionare come simbolo sia di un sistema notazionale sia di un sistema denso... molte attività simboliche sono fondate sulla coesistenza, all’interno dello stesso linguaggio, di sistemi densi e articolati” (25).

3. Il linguaggio non è “un universo di oggetti, sia pur sui generis già costituiti fuori di noi. Anzi è questa attività a “spiegare l’esistenza di un siffatto universo”. I simboli non sono lì bell’e pronti ab aeterno, ma “perché noi li produciamo; e dunque,  la dimensione pragmatica del linguaggio non  si aggiunge alla sintassi e alla semantica, come appendice integrativa, ma è la dimensione in cui prendono forma le condizioni ‘immanenti’ e ‘trascendenti’ del linguaggio.(26).

4. Le relazioni di cui gli individui sono portatori devono essere oggetto d’analisi. Ma il principio di relazionalità non esclude una funzione autonoma degli individui nella teoria. “O, se si preferisce, la pratica svolge essa stessa una funzione teorica”:“in una lingua naturale, è proprio dalla parole, non dalla langue, che dipende l’articolazione del sistema: o, se si vuole, la parole concorre, paradossalmente, a istituire la langue almeno quanto la langue determina e modella la parole (25).

5. “Noi parleremo di simboli precisamente in quest’accezione, ossia di oggetti o eventi che funzionano convenzionalmente come unità sintattiche di un determinato linguaggio” (29). Esistono invece anche simboli non convenzionali (altri tipi di simboli): i sintomi, gli indizi. Tra simboli convenzionali e non esistono differenze e somiglianze.

6. “Certi oggetti.. funzionano come simboli solo all’interno di certe convenzioni che ne regolano la produzione e la ricezione... il loro essere questo o quel simbolo dipende in modo cruciale dal loro essere percepiti e classificati [secondo una determinata convenzione, arbitraria]” (31). Il criterio per fare di un oggetto un simbolo non è iscritto “nella sostanza fisica degli oggetti deputati a funzionare come simboli” (31). Ovviamente “perché si dia simbolo, un qualche oggetto dovrà pur esserci in assoluto, e dovrà pur possedere questa o quella proprietà acustica o visiva” (31)

7. Stretto legame fra simbolo e azione:“qualsiasi azione orientata implica un minimo di simbolizzazione.. qualsiasi attività simbolica non cessa per questo di essere un’attività” (30)

8. Possiamo parlare di ‘oggettività’ per “quei particolari oggetti che sono i simboli e le loro combinazioni’?
Si parla però di “valore linguistico di tali oggetti”. Non di esistenza: “ad ‘esistere’ propriamente sono i parlanti empirici e le entità fisiche che vengono scambiando” (31). Le regole e convenzioni che i parlanti seguono non ‘esistono’, ma “sono in vigore”: “Non c’è nulla fuori di noi, nel regno degli ‘oggetti’, che funga da simbolo assolutamente e indipendentemente dalle operazioni che compiamo su di esso. Un simbolo non può essere  per se stesso se non quello che è per noi (32).

9. C’è un punto di accordo fra nominalista e platonista condiviso da tutta la riflessione moderna sul linguaggio: “un individuo (iscrizione o fonazione) non [è]di per sé un simbolo”.
Il punto di contrasto sta in questo: il nominalista ha una concezione ‘giuridica’ del codice, il platonista l’ha invece ‘ontologica’. In questo secondo caso, “la lingua potrà essere rappresentata come un sistema autonomo e indipendente, abbandonando al loro destino effimero gli individui in cui si materializzano le entità che lo costituiscono...C’è uno stampo, e questo è tutto: si tratta solo di trarne dei calchi. Dopo di che, i simboli  sono ; sono per se stessi repliche di questi tipi, membri di queste classi.. lo sono oggettivamente... un ‘dato’ davanti a noi ” (42). Il platonista entifica gli universali, ipostatizza un oggetto linguistico preesistente. E quando si parla di ‘oggettività’ del codice, non è che si dica che essa sia “un’oggettività mediata dagli a priori negoziati, istituiti, condivisi dialogicamente dalla comunità dei parlanti” (43) [storici?]. Il platonista offre più del necessario: non la semplice intersoggettività delle regole con cui produciamo e identifichiamo i simboli, ma l’oggettività.. del ‘sistema’:“un giorno  ci hanno portati a visitare l’iperuranio, e da quel giorno portiamo depositate nella nostra mente certe forme ideali di cui, per anamnesi, riconosciamo l’impronta non più nei comuni oggetti, come egli usava spiegare un tempo, bensì, chissà per quale ragione, proprio nei simboli” (43) E la psicoanalisi? Non dà in parte ragione al platonista?  Perchè i simboli  siano stati caricati così tanto non lo spiega una visione materialista-marxista?  Si tratta solo di un’utile finzione? Non fa lo stesso un romanziere rispetto all’“esistenza dei suoi personaggi”? Brioschi contesta al platonista che questa sua ipotesi di ricerca sia “una scelta necessaria”(44): “se vogliamo spiegare che in questa p non conta il colore, bensì la forma e l’orientamento, per quale motivo dovremmo fare appello all’esistenza, reale o figurata che sia, di un universale |p|?”(44)

10. Né il testo, né il codice “ci aiutano in alcun modo a garantire la validità dell’interpretazione” (49). L’autoevidenza del testo altro non è che l’autoconferma dell’interpretazione. Il testo si dà solo attraverso le categorie che noi abbiamo proiettato su di esso (50) Nella pratica non incontrerò mai il testo per se stesso, ma soltanto il risultato di un’interpretazione e non saprò mai “se il testo letto coincide o no con il testo ‘in sé’, se ho ‘trovato’ quel che esso davvero ‘contiene’ o se l’ho soltanto costruito. (50).

11. Bisogna liberarsi dal presupposto che il testo possieda di per sé una qualche virtù comunicativa (sorella della più antica virtù dormitiva). Questo è un feticcio, nel quale abbiamo reificato “come proprietà dell’oggetto le interazioni umane che lo istituiscono” e che ha prodotto poi la fiducia nella “cieca disseminazione, la deriva incontrollata dei segni, l’insondabilità di ogni significato” (52). Bisogna capovolgere il motto di Derrida: non c’è davanti a noi nessun testo preesistente e indipendente dalle nostre operazioni interpretative. Nessun oggetto è intrinsecamente un simbolo: perché funzioni come simbolo, occorre che sia prodotto e percepito secondo certe regole all’interno di un gioco di coordinazione tra i parlanti” (52). Possiamo continuare a dire che “certi oggetti sono dei simboli”, ma dobbiamo ricordarci che è solo  una sintesi comoda, “la stessa cosa potendo essere e cosa e simbolo” (Logique de Port-Royal). Un simbolo va sempre concepito come un fatto relativo ad una comunità.[ Concetto che vorrei esaminare a fondo. Perché non più “società”? Timori  verso l’elemento coattivo implicito nel concetto di ‘comunità’...]

12. Rinuncia dei tipi platonici. Condannati dunque a costruire il testo come ci pare e piace? No. L’interpretazione è necessariamente attiva, ma non necessariamente soggettiva (52), perché “sarà, almeno a un primo livello, convenzionale”(53) Leggo la Commedia  di Dante secondo le regole vigenti nella mia comunità e non vi leggerò mai  la Vispa Teresa. Niente soggettivismo e niente demiurgia. Neppure per il nominalista il testo è una macchia di Rorschach. E’ strutturato dal mondo delle azioni che lo chiama ad esistere, non da uno spirito occulto che lo abiti interiormente (53). Non c’è un codice che garantisca la giusta interpretazione, ma in compenso c’è “una rete di aspettative reciproche, una memoria storica, una somma di conoscenze di fatto, al cui interno noi produciamo così e così i simboli e così e così li percepiamo” (53). Dobbiamo rispettare le regole condivise o condivisibili,[ non c’è una bella distanza fra condiviso e condivisibile?] a cui ci si è riferiti per produrre. Siamo di fronte non ad un problema di verità ma di legittimità: possiamo produrre molti enunciati vero o falsi su un testo, come su  qualsiasi cosa, ma “un’interpretazione non è mai propriamente vera o falsa” (espressione  sintetica di comodo). Abbiamo delle  interpretazioni “che pretendono veridicamente o falsamente di obbedire alle regole condivise o condivisibili della comunità”. Un’interpetazione  ‘falsa’ costruisce un testo diverso da quello che noi siamo disposti a costruire partendo dalle stesse tracce d’inchiosto. [Lotta delle interpretazioni? Delle narrazioni? Sono equivalenti? Tutte legittime? No]:“La discriminazione fra interpretazioni rivali non sarà operata dal testo in sé, bensì da quelle parti o livelli di testo risultanti da un’interpretazione considerata irrinunciabile da entrambe” (54)

13. [Senza conseguenze piacevoli o spiacevoli sulla “comunità”? Siamo a Nietzsche:“ non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”?] “quantomeno nel linguaggio”[aggiunge prudente Brioschi, che insiste:]  nulla a che fare con “la morte di dio, il Tramonto della Certezza, l’Oltrepassamento della Metafisica o altri Eventi Epocali”. Insomma “tutto ciò che si dà come linguaggio non è mai un fatto”
[Ma questa maledetta soggettività, che tanto è espunta, non contiene  qualche anticorpo ai vischiosi e spesso bloccanti processi tipici della comunità? Vada per la critica al platonismo e al decostruzionismo, ma non c’è una svalutazione eccessiva della soggettività? D’accordo sul fatto che ogni atto di linguaggio è “atto originariamente dialogico” (54), che è possibile solo “nel nostro umano mondo di azioni”, dove “ci costituiamo come soggetti. Ma perché solo come “soggetti empirici”? Davvero dobbiamo “rispondere [soltanto] ai soggetti empirici che ci interpellano”? Non dobbiamo forse rispondere anche a soggetti astratti che non ci interpellano affatto ( Vedi guerra)?]

14. Brioschi teme  (eccessivamente?) le critiche di chi  potrebbe accusarlo di “mettere in ombra la dimensione dell’oggettività” (54). E afferma che il problema dell’oggettività può “essere sensatamente posto [soltanto] nel mondo degli individui” [ma in quanti siamo in un mondo di individui?]. Inoltre distingue fra “semplice agire”, che si esaurirebbe nel suo stesso compiersi [?] e il produrre, che è “un agire che lascia dietro di sé un oggetto”, un evento, un ‘fatto’ pubblicamente percepibile. “Un simbolo.. è in primo luogo un prodotto”, “cosa tra cose”, un ‘oggettività “per nulla differente dall’oggettività di qualsiasi altro oggetto”].





[1] Sandro Briosi (1941 - 1998) è stato ordinario di Letteratura italiana a Siena, ha insegnato nelle università di Milano, Groningen, Amsterdam, Toron­to e Montreal. Ha dedicato volumi e saggi alla letteratura italiana del primo Novecento (Vittorini, Marinetti, Serra, Svevo), alla filosofia di Sartre e a questioni di teoria letteraria (Il senso della metafora, 1985; Il simbolo e il segno, 1993). Ha fondato e diretto l’Associazione per lo studio del tema «Simbolo, conoscenza, società).

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