Agosto 2009
IL
VIAGGIO DI UN «CETOMEDISTA»
Appunti di critica dialogante
di Ennio Abate
O Dio, se si potesse leggere nel libro
del destino
e vedere come il volgere del tempo
appiana le montagne, e i continenti,
stanchi di restar solidi, si stemperino
nel mare; e veder altre volte
che la cintura costiera dell’oceano
è troppo larga per i fianchi di Nettuno; come
i giochi
del caso e i mutamento colmino la coppa
dell’instabilità con liquori diversi!
Oh, se questo si vedesse, anche il più
spensierato
dei giovani, guardando il suo cammino
futuro,
i pericoli passati e le prove a venire,
chiuderebbe quel libro e vorrebbe
morire»
(Shakespeare, Enrico IV citato in Viaggio nella presenza del tempo, p. 294)
Avvertenza
Frequento
da decenni le scritture di Giancarlo Majorino e appartengo a una generazione a
metà strada tra la sua e quella di molti suoi più giovani lettori e
interlocutori. Questi appunti sul suo Viaggio
risentono perciò sia della memoria di un passato letterario-politico ormai
sepolto e nel quale egli, ben più di me, si formò, sia della mia ostilità
meditata a quel che viene chiamato «post-modernismo», orizzonte nel quale a mio
avviso il suo Viaggio, pur con modi
propri, mi pare in parte iscriversi.
Sono
rimasto, infatti, impressionato dalla struttura ampia e irregolare dell’opera.
Passare da ciascuna delle tre aperture
introduttive ai canti e alla materia linguistica in essi contenuta ha
significato spostarmi bruscamente da zone linguistiche relativamente chiare,
stabili, controllabili e decifrabili a zone linguistiche percorse da flussi
nervosi, continuamente variati, pluridirezionali, ritmati in modi irregolari, a
volte persino caotici e con anfratti di difficile decifrazione.
Ho
fatto persino l’ipotesi (da controllare però con successive letture) che tale
flusso linguistico, depositatosi o distribuito dall’autore nelle caselle dei
libri e dei canti, potrebbe variare
ancora. Non mi pare, infatti, che ciascuna delle quattro parti del poema si
distingua dalle altre per una sua tonalità omogenea. La trama che le collega
(un viaggio di andata e ritorno Milano-Crema) resta tenue. E la gerarchia tra
loro – abbastanza rispettosa della cronologica nelle prime tre e una quarta ed
ultima che, rifiutandosi di essere conclusione, è una tesi filosofica “aperta”
– è volutamente debole.
Tra
i due poli – unità e molteplicità - in cui la costruzione del poema si è dibattuta,
è prevalsa di gran lunga la spinta alla molteplicità. Tanto che ho dubbi nel
definire questo libro un poema, forma
per me indissolubile da un impianto in cui domini l’unità.
Quanto dirò qui di seguito tocca solo
alcuni dei temi che nel Viaggio
giudico fondamentali.[1]
Mi soffermerò poi brevemente sui problemi della prima ricezione dell’opera e,
in appendice, darò la traccia di una mia lettura e il riassunto dei singoli
canti.
Questa mia riflessione, che muove da esigenze
e preoccupazioni che so sicuramente inattuali per i più giovani e messe da
parte dai più vecchi, è anche un rendiconto leale del mio assiduo e amichevole
confronto con l’autore.
Sul titolo. Il tempo: protagonista e avversario
La prima e principale
chiave di lettura del Viaggio sta per
me nella scelta di interrogare e interrogarsi «nella presenza del tempo». Dietro
il problema del tempo c’è, si sa, quello della caducità e continua
trasformazione delle costruzioni umane, dell’invecchiamento dei corpi, del
senso che, di fronte alla morte, mantiene o perde la storia di un singolo o di
una collettività.
Majorino parla di presenza del tempo fin dal titolo. E ha
lavorato per decenni a «presentificare» il passato concresciuto con la sua esistenza,
con le trasformazioni della sua
Milano e della cerchia di amici, conoscenti, ammiratori, denigratori o
concorrenti che lo hanno seguito o inseguito.[2]
Ma com’è possibile che il
tempo – tutto un tempo nel quale una biografia e una storia collettiva
(italiana in questo caso) sono state tessute - può essere o tornare presente, cioè mantenere o riavere la
vitalità o la consistenza che di solito attribuiamo esclusivamente al presente
che diciamo “vero”, quello in cui siamo
pienamente e spesso inconsapevolmente immersi, tanto da dimenticare il passato
e non pensare neppure al futuro?
Majorino ha dato risposte
su questo punto in varie interviste;[3] e qualcuno dei recensori,
più attento alla dimensione filosofica di tale questione, ne ha colto
l’importanza.
Sta di fatto che qui, nel poema, mi
trovo di fronte alla parte del tempo che egli ha rivissuto nella scrittura, la parte più soggettiva,[4]
che è stata ed è tornata a lui presente per esercizio d’arte negli
innumerevoli atti che l’hanno portato alla stesura definitiva del poema. Egli
l’ha restituita (termine ricorrente
del suo vocabolario critico) al presente (a
noi viventi oggi), lottando contro il tempo oggettivo dell’orologio e
resistendo all’angoscia di morte.[5] Majorino non dichiara
mai apertamente il tempo come nemico. La sua lotta contro il tempo-morte, per cancellarlo,
ammansirlo, renderlo meno pressante, è condotta con un’ironia seria e
fanciullesca insieme. Ad es. nell’intervista a Victoria Surliuga dice
(“tetrallegramente”!):
«Mi sono
stancato dei miei anni, di un conteggio così "generico", e mi sono
messo a contare i minuti. Sai quanti minuti ho? Te lo dico perché è una primizia!
Ho trentotto milioni di minuti: mi sono accorto, quando è venuta fuori questa
cifra, che era orribile, per il fatto stesso di essere una cifra. Ci vorrebbe
una riforma dell'anagrafe, fondata sulla vera idea dell'enorme rilevanza di
ogni minuto»[6].
È un semplice vezzo, un esorcisma?
Non credo. Razionalmente egli sa che anche un
conteggio non generico degli anni (suoi, nostri) – segmentato in minuti o in
secondi invece che in ore o anni - non ci restituisce veramente una esperienza umana consumata, fuggita, davvero passata. All’angoscia del tempo-morte
reagisce da scrittore, linguisticamente,
con la scelta ferma, diventata stile,[7]
di prendere le distanze dal linguaggio e dal senso comuni. È uno scatto
orgoglioso per inserire soggettività (vitalità) nell’oggettività -
frazionatrice, esterna, distruttiva e che resta «orribile» - del tempo. Credo
di poter sostenere perciò che – come Proust o come tanti scrittori – egli con l’opera abbia voluto vincere il
tempo o resistere alla sua azione cancellatrice. Un confronto tra la Recherche proustiana e il suo poema mi pare legittimo,
necessario e da fare per cogliere sia le analogie sia le differenze tra uno
scrittore che andò a caccia del «tempo perduto» rinchiudendosi in esso e uno
che lo ha voluto spasmodicamente presentificare.[8]
Lo sguardo sul Novecento di un «cetomedista»
Nel Viaggio nella presenza del tempo ci sono tutti i fantasmi (buoni e
cattivi) di un «cetomedista» del Novecento[9]. Il fondo autobiografico appartiene
di peso a questo tipo sociale oggi venuto in primo piano nelle società
industriali e postindustriali dopo la sconfitta delle classi operaie nazionali.
Dico subito, a scanso di equivoci, che «cetomedisti»[10] sono/siamo noi, reali o
potenziali lettori del poema. Sono/siamo noi i «simili dissimili», sui quali l’io
di Majorino si è più modellato e dai quali ha più «incorporato». Dico pure che
intendo il Viaggio come una sorta di
“autobiografia cetomedista”, dove egli si prova a riportare su un piano
universale e immaginario quella “terza via” utopica che in Italia fino agli
anni Settanta del Novecento è rimasta sempre sotto traccia o è stata tenuta ai
margini da quelle che Majorino chiama le due «opposte schiere» (una volta, secondo la vulgata marxiana, le classi:
borghese e proletaria e/o le sue rappresentanze politiche). E aggiungo, infine,
che, secondo me, la prospettiva delineata nel Viaggio che, «riunite le due lame della forbice, spenta la torcia»[11], sarà possibile
«conoscerci» è al momento fede, utopia «cetomedista», non dissimile da quelle
di matrice socialista o comunista che hanno percorso la storia degli ultimi due
secoli.
Questo ideale di conoscenza piena, dispiegata,
contro la «dittatura dell’ignoranza» non si presenta però in Majorino in
termini ingenui o unilaterali. Nel sostenerne la possibilità (soprattutto in Paradiso nervoso[12]),
egli non copre mai la realtà sociale
orrida che incalza il ceto medio. La spia invece di continuo e alimenta così
quella sua ipotesi di «spostamento», che è la vera lezione che egli trae dalla
storia del Novecento e dal fallimento delle istanze socialiste, comuniste o più
genericamente di Sinistra.[13] Non a caso nel poema a
ogni sterzata “utopica” segue una sterzata “realistica”. C’è in Majorino la consapevolezza inquieta e di
ascendenza illuministica e marxiana, della debolezza dell’utopia.[14] Tanto che talvolta, di fronte a certi orrori
d’oggi, s’impone egli stesso il dubbio:
«non se ne può più,
“la vita comune come base di tutto”
ma se un’ascia ha
tagliato in due, una parte su e una giù per sempre?» (Viaggio, pag.383)
Sul possibile ruolo del ceto medio la
sua oscillazione è continua, insanabile. Non smette di constatare (mai
moralisticamente) che i «cetomedisti» tendono a ripararsi dall’orrore della realtà sociale («riluttano
o si voltano a guardare giù a chi sta sotto», p. 418), ma non rinuncia alla sua
apologia speranzosa:
«Avere a che fare con
loro [i cetomedisti] alla pari è sogno degno; potrebbe divenire l’arma atomica
dei rivoluzionari, ma questi come gli altri onesti riformatori continuano a
giacere quasi senza sussulti, nella dittatura dell’ignoranza» (Viaggio p. 418)
Quando una delle sue
maschere, il Prof, ormai anziano, ripensa al ’68, lo vede «magnifico e
stupido», concludendo che quella rivolta fallì per una mancata scelta di
«autonomia culturale, senza la quale/rivoluzionari testavuota[15] sono destinati a
bruciare», sembra non accorgersi che sta parlando di un movimento che espresse
e mise in piazza (in pratica) proprio spinte utopiche cetomediste (“piccolo
borghesi” dicevamo io ed altri allora)
in una forma che si volle universale e che ora Majorino riprende in Paradiso nervoso sul piano
dell’immaginario.
Allora, nella storia
concreta, esse furono presentate dai mass media all’opinione pubblica come
astratta pretesa di un settore sociale (gli studenti, i giovani) e furono
subordinate (o in parte si subordinarono) alla tradizione di pensiero politico
della Sinistra, che pareva potesse rafforzarsene e influire di più nella
società italiana. Oggi, dopo la loro sconfitta, sono state o mantenute in vita
come ideologia autoconsolatoria e veramente «stupida», perché politicamente
inerte (se pensiamo alle retoriche celebrazioni dei decennali del ’68); oppure
sono state riassorbite a uso dei vincitori e usate come additivo della
mercificazione e della società dello
spettacolo.
La ripresa di tali istanze
utopiche nel poema, pur trasferite sul piano di una potente immaginazione, non
evita il rischio di una loro sublimazione e proiezione in un indefinito futuro
però; e non nella «presenza del tempo».
Oscillazione
«cetomedista» mi pare anche quella tra poesia (soggettività) e “realtà”. Realtà
come ti bramo! sembra esclamare il
cetomedista intelligente del poema. È una sorta di leit motiv del Viaggio.
Eppure della “realtà” il poema sembra catturare soprattutto la dimensione dell’«infernalità»,[16] simildantesca, comunque letteraria.
Sempre nell’intervista a Surliuga[17] i dubbi su come sta oggi il rapporto tra
pensiero (o poesia) e “realtà”[18] (ignota, seminota o
malnota) che stiamo vivendo o subendo
scivolano però nel silenzio. E credo che non possano essere per ora approfonditi,
perché non ci sono più interlocutori sensibili e sono venute meno con la
sconfitta le condizioni minime che permettevano ancora di parlare di “cose”
ormai quasi innominabili.[19] Oppure risultano echi di un altro modo di vivere il mondo e pensare la scrittura[20] che si era affacciato
negli anni Sessanta-Settanta, al tempo di quella che Majorino chiama la «poesia
critica», e s’è inabissato tornando, chissà per quanto tempo ancora (o per
sempre?), impraticabile. Eppure l’idea di scavare,
di entrare comunque in rapporto almeno con questa infernalità, che io
intendo come una parte se non un surrogato della “realtà”, sia pur in nome di
una scrittura libera e senza più pretese
“ideologiche” di cambiarla, è continuamente
ripetuta, riproposta:
«..rapportarsi senza
paura e senza eccessi di ritegno agli inferni contemporanei, alla “realtà”, che
mi pare la più decisiva base di confronto, e per l’arte e per chiunque intenda
diventare libero davvero» (Surliuga, Idem, p. 93).
E però, la
“realtà-realtà” – ripeto - non può essere affrontata. Anche quando «l’immaginazione viene incitata
a entrare nella realtà», l’esempio scelto è fortemente venato di intimismo autobiografico.[21] Forse perché la vita, e
non solo quella dei «cetomedisti», è
stata davvero ridotta oggi a «vitetta».[22] Con gli strumenti della
sola immaginazione o della letteratura (come avevamo sospettato nel ’68,
sollevando contro la letteratura e gli altri saperi dubbi anche fecondi, ma
oggi avvizziti e quasi inconcepibili) a me pare che si resti utilmente marziani
ma marziani. Inoltre Majorino non separa mai il suo
discorso poetico da quello critico (e politico). Può essere un esempio del suo
rifiuto dei dualismi. Ma può essere
anche elusione, rifugio nell’utopia, mentre la massa degli altri insistono
imperterriti nei dualismi. Capisco
la volontà di «raccogliere, di
agglomerare eterogenei», il bisogno profondo di oltrepassare i contrasti, i
«dualismi» per cogliere l’«unità della persona». E non mi pare si tratti di
un’esigenza puramente filosofica di sfuggire alla fissità del concetto di
«essenza».[23] Ha
profonde basi psicologiche e si lega per me a quello che non esito a chiamare
il culto del femminile più volte
ribadito nel Viaggio o nelle
interviste e base sia dei suoi momenti più lirici e dei passi più erotici che
della sua estetica.[24]
Eppure a me pare che il suo discorso sia costretto a mantenersi troppo
prudentemente in un ambito comunque più protetto, sfuggendo quello della
politica o i campi degli interessi e dei conflitti materiali dove le opposizioni
sono più ineludibili e inconciliate.[25]La
grande città in cui Majorino afferma di
vivere volentieri non è solo «una ridda dei possibili sempre in atto»[26] o una realtà formata da tante diversità.
Queste diversità confliggono tra loro, non sono solo diversità, restano per me
contrasti.
Il poema, come ho detto, specie nella
parte finale presenta una vera tesi utopica «cetomedista», che oltrepassa gli
stessi modi di sentire, di pensare, di giudicare dei
«cetomedisti» reali. Perché Majorino è un «cetomedista», però è un poeta. E
fuoriesce per la via d’arte dalla esperienza
reale (e oggi non entusiasmante) di cetomedista
milanese del secondo Novecento. Un esempio. Mi porto nel novantunesimo
canto: qui torna un accenno a due personaggi - Di Guida e Vanna – e a quanti
decidono «semplici affari, spostamenti/chiusura di aziende non più redditizie».
Un elenco ansioso di orrori contemporanei che finiscono in un disperato «a
trucidare sempre, a trucidare ancora». Questi tragici e shakesperiani passi (da
tener presente insieme a quelli più “danteschi” e “paradisiaci” dell’ultima
parte del poema) sono per me tra i più forti, dolenti e veramente coraggiosi
del poema; e del tutto fuori dal coro rispetto al cetomedio “reale” e ai poeti
in circolazione oggi, anche giovani, che pur dal ceto medio in buona parte
provengono. Perché da una parte trattengono, nei modi stilistici di Majorino,
l’acido delle denunce più politiche
dell’epoca della «poesia critica» e dall’altra sfiorano più da vicino la condizione degli “altri” che si agitano in
quella «infernalità» o in quei paradisi soltanto
«nervosi».
Pensare il poema nel 1968 e scriverlo nel post-‘68: dall’opposizione
allo “spostamento”.
La scrittura, una
scrittura che si plasma e si modifica nel tempo è un altro aspetto centrale del
poema.
Il Viaggio è opera matura di un poeta che raggiunto piena
consapevolezza dei suoi strumenti e, aggiungerei, della sua identità di
scrittore novecentesco. Ha avuto una incubazione affinata intellettualmente ma
anche inconscia e onirica. Ha preso forma in determinate ore del giorno, entro particolari
stati d’animo, mentali e operativi allo stesso tempo. Penso che Majorino sia intervenuto su tutta l’esperienza di vita e
di scrittura accumulata fino al 1968 (è bene qui ricordarlo: è nato nel 1929)
ma poi anche sugli ampliamenti, le aggiunte, i tagli, le correzioni. Il Viaggio è uscito nel 2008, ma egli ha
cominciato a pensarlo e ad abbozzare nel clima eccitante e pieno di speranze
del ‘68-‘69.[27] Tuttavia va subito notato che il suo ’68, pur avendo a che fare con il ’68
storico e sociale circostante, e cioè con un evento mondiale quanto mai plurale
e contraddittorio, si è per lui presto e profondamente fuso con un lutto.[28] Il suo ’68 è una semplice, breve, interruzione di un processo più
ampio (l’«antefatto taciuto»). È questo che incombe e che ha sempre più condizionato,
secondo me, la stesura del poema.
La mia ipotesi allora è
la seguente: la pluridirezionalità, la complessità, il polimorfismo, l’assenza
ribadita di conclusione (attributi sia del ’68
che del poema stesso e del suo finale) non riescono a nascondere la
linearità sottostante di un tragitto della scrittura di Majorino, che è andata
– la sintesi che faccio è forse drastica - dall’opposizione
allo spostamento. In altre parole l’intuizione iniziale del poema era
iscritta in una visione generale di opposizione
ma la stesura, lo svolgimento, ha deviato verso un’ottica diversa, di spostamento. [29]
Il «punto di vista dell’oppositore»,[30]
operante nella sua antologia savelliana del '77 (e quindi per quasi tutti gli
anni Settanta), venne abbandonato in Poesie e realtà 1945-2000.
L'affermazione più forte dei ragionamenti della nuova edizione della precedente
antologia mi parve in fondo proprio questa: «Non è più l’opposizione la base
metodica del nuovo Poesie e realtà,
ma, si è già detto, lo spostamento».[31]
Non è stato fatto di poco conto per uno della sua generazione staccarsi dal
moto oppositivo che ha caratterizzato quasi l'intero Novecento e che, in forme
più sotterranee o indecifrate, sembrava a molti negli anni Ottanta-Novanta,
almeno fino alla caduta del muro di Berlino del 1989 e dell’implosione
dell’Urss del 1991, ancora sussistere sia pure in forme meno decifrabili. Al
posto dell’opposizione, e specie a partire
dall’esperienza di Manocomete[32],
Majorino ritenne indispensabile uno spostamento: «la necessità di togliersi e cercare di guardare le cose da un
punto di vista più magnanimo, compresa la propria scrittura. Altrimenti ogni no
diviene il no di un sì, e quindi ne dipende».[33]
Era una ritrattazione? una conversione a modi di
pensare più o meno "post"? Non sta a me giudicare. Ed è secondario
ricordare, anche se non vano, che io abbia allora condiviso in parte la
necessità di un discorso di spostamento
forzandolo verso un discorso di esodo[34]
al quale aderivo più pienamente.
Ai tempi di Manocomete
era già innegabile che le attese di una modificazione, «rispuntata nel '68»
erano svanite e che le feconde ambiguità di quel movimento erano state
camuffate. Tuttavia nel ripensamento delle scelte da fare le parole contavano: spostamento
non era più opposizione e non
era esodo. Ho riconosciuto anche successivamente a Majorino che il suo spostamento
aveva alcune buone ragioni e una sua
drammaticità etica.[35] Era gesto guardingo, compiuto dopo un tracollo
e per resistere a una incombente ma sempre meno nominabile minaccia. Eppure non
posso non rammaricarmi ancora oggi che la scelta dello spostamento l’abbia portato a una esplorazione comunque più in
solitudine della “realtà” con l’abbandono del lavoro di
gruppo, di cenacolo, di rivista. La sua solitudine felicemente
rumorosa[36]
fu certamente scelta etica e mai chiusura solipsistica. Tuttavia la riduzione
degli altri a fantasmi, che si faceva
sentire per me già in Poesie e realtà 1945-2001 è inevitabilmente proseguita. Majorino non è andato in cerca di un “altro”
metafisico, ma il corporeo di «quei quattro quinti del mondo consegnati
alla miseria, esclusi dal sapere e dallo stesso principio speranza»[37]
resta inaccessibile, oggetto solo di
avvicinamento immaginativo
(come nel poema i drammatici e quasi sconvolgenti pezzi sulle odissee tragiche
dei nuovi immigrati). C’è da riconoscere che dall'«ignoto del noto» nessuno riesce ad andare all' «ignoto vero e
proprio»;[38] e
che né il suo spostamento né il mio esodo riescono a
oltrepassare queste colonne d’Ercole, dove ci arrestiamo tutti -
«cetomedisti» convinti o delusi di
esserlo - quasi impossibilitati a sporgerci
oltre e costretti a porre per ora solo domande e domande.
E le mie restano ancora oggi, in fraterna e spero
costruttivo confronto con Majorino, ancora quelle dei tempi di Manocomete: se lo spostamento,
che è comunque un sottrarsi a qualcosa di insopportabile, a cui prima ci si opponeva o ci si illudeva di opporsi, non significhi neutralità; e se, per evitare tale
rischio, non debba almeno contenere in sé una qualche opposizione a ciò da cui
ci si sposta per non dipenderne ancora. Esiste,
infatti, per me, e operante anche nel poema ( e nella sua ultima parte
soprattutto), il rischio di una versione rappacificante e neutrale, una
versione ipercetomedista dello spostamento, una tentazione di medietà
(quasi oraziana).
Concludendo su questo punto. La lunga genesi del
poema pone interrogativi non oziosi e potrebbe suggerire una domanda e altre
chiavi per una sua lettura. La domanda: come s’è trasformata nel corso di
quarant’anni quella sua prima idea di poema nata in un preciso e poi smarrito
clima storico? Ovvero come hanno interferito gli eventi successivi sull’idea
iniziale e sulla sua realizzazione? Hanno accentuato l’elemento aurorarale o
l’elemento luttuoso? O essi sono in equilibrio? Ma anche: come hanno fatto
sentire diversamente (dal previsto? dal desiderato?) la loro «presenza» gli eventi precedenti (infantili, giovanili)
riaffiorati (da quando?) dalla memoria e rielaborati nel «presente» della
scrittura? E poi: da cosa sono state sostituite le istanze politiche di allora?
quali concetticona al posto dei
concetti “invecchiati” (“rivoluzionari” o “di sinistra” che pure egli usò ed
ora sono sentiti come vuoti o ridotti ad
abbreviazioni di un idioma privato)? Illuminante trovo quanto Majorino scrisse
a proposito di Prossimamente,
riparandosi dietro un linguaggio ora più metaforico e indiretto che lasciava
nell’indeterminatezza certi elementi, tanto che da storici potrebbero ora valere più come fatti di natura :
«La Torcia rappresenta
l’improvviso e violento arrivo di qualcosa di molto distruttivo…distrugge tutto
e tutti.. La Forbice
è invece la scoperta, all’interno di una poesia lavorata a lungo, di qualcosa
che la Torcia
rivela, quasi come il fondo di tutto, ovvero la differenza letale tra chi ha e
chi non ha».[39]
Di certo credo che il Viaggio, pensato nel ’68, si
sia poi sviluppato sotto la stella ascendente di Nietzsche e quella calante di Marx.[40]
Il Viaggio
nella storia del Novecento
Su quest’altro tema fondamentale del Viaggio, prendo spunto ancora da una recente
intervista:[41]
La Storia, presentissima nel suo lavoro, si costruisce su diversi
piani: nel poema si dà una storia multidimensionale, da quella del mondo (dal
XX secolo a oggi) a quella dei singoli personaggi. Prendendo esempio da Céline,
lei mescola “la storia che sta scrivendo e il suo presente da incazzato”. La
sua poesia vuole essere un’esortazione alla responsabilità storica? Come si può
guardare oggi alla storia in modo responsabile?
Ho sempre dato grande importanza
alla storia, insieme però a una forte critica, sia assunta che praticata.
Secondo me la storia deve riempirsi dei vari vissuti, deve essere una storia di
vissuti. Questo non elimina i grandi fatti che accadono, ma forse alla “storia
in genere” manca l’essere sentita come piena di vissuti, e da ciò dipendono
anche conseguenze politiche non da poco. Oggi c’è una presentificazione
continua dominata dal mercato e dalle merci. Molti sono più portati a
considerare la storia come una cosa ufficiale e un po’ lontana. Credo che
invece noi viviamo la storia personalmente. Il nostro corpo è fatto anche di
questo, del passato, del presente e anche un po’ del futuro. L’elemento storico
è ben presente nel poema, non meno però dell’elemento corporale… il corpo di
ciascuno è un singolo di molti. Non un individuo ma neanche la particella di
una massa. Questo essere singolo di molti tra singoli di molti, che lo sappiano
o no, genera in tutto ciò che ho scritto un’attenzione forte al corpo,
all’eros, ai rapporti tra le persone… (ma questo d’altra parte non esclude
fatti generali.) ( intervista sul sito www.ospiteingrato.org)
Personalmente ho
rinunciato al tentativo fatto in un primo momento di entrare nel poema per così
dire dalla porta “storica”, come se essa fosse la principale per intendere il Viaggio. In realtà mi sono accorto che
non è così. E le riserve verso il sapere storico, qui sopra espresse da
Majorino, hanno consolidato questo mio indietreggiamento. Esse in parte
colgono una verità: nella “storia degli storici” spesso è mancato il “vissuto”.[42] Tuttavia per me resta
fermo che la storia non può essere sostituita dal vissuto né ridotta ad esso[43] e credo che la crescente
attenzione che si è avuta dagli anni Sessanta al corpo e all’eros sotto la
spinta della psicanalisi e del
femminismo non sia così facilmente integrabile o conciliabile con le dimensioni
politiche e sociali che sono ancora quelle centrali nel sapere storico. Una «storia
dei vissuti» non è facile da farsi, come non è facile congiungere, se non a
livello di slogan simbolico come accadde negli anni Settanta, personale e
politico.
Tali
difficoltà hanno anzi portato in anni recenti ad una crescente separazione e per molti oggi il problema di valutare
che rapporto ci sia tra storia e “vissuti” (ma anche tra storia e poesia) non
si pone neppure più. E quanti sono più attenti ai “vissuti” trascurano la
storia e per molti è quasi un dogma che in ogni caso i poeti raggiungerebbero la
“realtà” o le zone più profonde della vita più immediatamente dei (noiosi)
storici. Lo sostiene, ad esempio, uno dei recensori del poema. A suo dire
Majorino narrerebbe «la storia avvitandola alla parola poetica, e la storia, in
poesia, non può che farsi onirica o allucinatoria, e proprio per questo
risultare paradossalmente più vera di quella degli storici».[44] Se così fosse, una lunga
e irrisolta diatriba tra storia e letteratura (e poesia) che ha illustri
precedenti[45]
sarebbe ormai stata risolta a favore dei poeti.
A
me pare, invece, che nel
poema la storia ci sia e che Majorino dia anche
giudizi storici (diretti o indiretti). Né mi pare che sposti sempre gli eventi su un piano
onirico o allucinatorio. È legittimo, dunque, valutare questi giudizi anche con mente da storico, come si fa
con Dante o Manzoni, senza per questo pretendere da un poeta l’esattezza
documentaria d’obbligo per uno storico.
Non mi pare onirico, ad
esempio, il giudizio espresso sul ’68.
Né mi pare che alla base del poema ci sia «lo spirito del ‘68» con le sue«nevralgiche utopie, con quello slancio libertario che lascerà tracce indelebili nel linguaggio e nell’immaginazione occidentale».[46] In realtà nel poema il ’68 viene definito in maniera secca «magnifico e stupido».[47] Majorino respinge cioè l’utopismo più oleografico che ancora resta appiccicato a quell’evento mondiale. E nell’intervista a Victoria Surliuga, ne parla come di un ingenuo «sogno soprattutto giovanile di mutare tutto»,[48] stemperandolo nel tempo,[49] che – ripeto - è per me il principale concetto chiave del poema e mette in ombra quello hegeliano-marxiano di storia.[50] Il suo giudizio sul ‘68 a me pare, perciò, una prova dello scolorirsi della sua fiducia o attenzione alla storia, del soggettivizzarsi della sua ricerca e del prevalere dell’attenzione ai “vissuti”, mediante un passaggio dal generale al particolare, dal pubblico al privato, dall’ideale o intellettuale al corporeo.[51]
Né mi pare che alla base del poema ci sia «lo spirito del ‘68» con le sue«nevralgiche utopie, con quello slancio libertario che lascerà tracce indelebili nel linguaggio e nell’immaginazione occidentale».[46] In realtà nel poema il ’68 viene definito in maniera secca «magnifico e stupido».[47] Majorino respinge cioè l’utopismo più oleografico che ancora resta appiccicato a quell’evento mondiale. E nell’intervista a Victoria Surliuga, ne parla come di un ingenuo «sogno soprattutto giovanile di mutare tutto»,[48] stemperandolo nel tempo,[49] che – ripeto - è per me il principale concetto chiave del poema e mette in ombra quello hegeliano-marxiano di storia.[50] Il suo giudizio sul ‘68 a me pare, perciò, una prova dello scolorirsi della sua fiducia o attenzione alla storia, del soggettivizzarsi della sua ricerca e del prevalere dell’attenzione ai “vissuti”, mediante un passaggio dal generale al particolare, dal pubblico al privato, dall’ideale o intellettuale al corporeo.[51]
Tuttavia qualcosa di
diverso (se non di più) deve spuntare nella scrittura quando la storia passa in poesia. Altrimenti basterebbero
davvero i libri degli storici.[52]
Rispetto al lavoro di uno storico,
cosa allora ci dà di diverso o di più il Viaggio?
A me pare che nel poema, man mano
che la storia si riduce ad «antefatto taciuto» o a un moltiplicarsi di dati
(sociologici, filosofici, autobiografici, onirici) -
così tanti e slegati e che vanno in così tante direzioni che forse non si può quasi parlare più di
storia[53]) - vengano in primo piano
vividi frammenti di vissuto e di corporeità (non soltanto onirici, dunque)
frutto di un lavorio soggettivo più nicciano che marxiano. E del resto nicciane sono le riserve verso la storia
nell’intervista al sito de L’ospite
ingrato e dichiarato l’indebolimento del legame con Marx.[54]
Gli eventi storici
insomma vengono sottoposti a un differente trattamento. Vengono poeticamente soggettivizzati e assolutizzati.[55]
Il Viaggio è – ripeto - nel
tempo (nella «presenza del tempo»)
non nella storia e tantomeno nella storia dal ’68 ad oggi.
Questa maggiore libertà
soggettiva rispetto alla storia, può essere anche un pregio, ma a me pare che
sveli dei limiti quando Majorino accosta il fascismo e il nazismo. Qui pare affidarsi più alla «forza del
linguaggio» che alla pur oggi abbondante
documentazione storica. Si tratta, ci dice, di un «passato massiccio e
melmoso», «uno schifo». E, da poeta,
inventa la figura del Reduce «che fruga/è frugato fruga» (Viaggio p.33) e trattiene «aspetti bui» del narratore stesso.
Le difficoltà crescono, a
mio parere, quando deve accostare «la danza delle macchine uncinate», la
«storia notte» delle «due guerre globali». Cresce anche l’angoscia: «e ma chi
interrogare?». E però la soluzione di ricorrere a brani coevi (le memorie di
Speer[56] o il brano del partigiano
Luciano Bolis[57]), in sostanza di dare la parola ai “morti” azzittendosi, mi pare debole sul
piano stilistico, perché il poeta si fa
qui sostituire dal documento storico e
non ci dice più nulla di quel che sente o pensa oggi di quel passato, non lo presenti fica a sufficienza. Più in generale l’abbandono del vecchio linguaggio poetico più
legato al sociale (a un’epoca “più sociale” o “socievole”) viene sostituito da
un linguaggio più vago, ambiguo, oscuro ed enigmatico. Certo, Majorino non sfugge l’orrore storico, ma
finisce anche lui per naturalizzarlo un
po’ (mi riferisco alle figure
archetipiche di animali) o per animalizzare gli attori sociali.[58]
Venuta meno la riflessione marxiana e storica sugli orrori quotidiani,
s’indebolisce la stessa volontà di
nominarli razionalmente. Al posto del concetto di Capitale emergono metafore
(La Torcia, la Forbice di Prossimamente)
che forse vi alludono ancora
vagamente (ambiguamente).[59]
Parlando
della storia d nel Viaggio mi pare di
vedere che accanto a Majorino si è
seduta la figura fraterna e influente di Luciano Amodio, per me un Giano
bifronte: il volto socratico e fiducioso degli anni Sessanta, quello scettico e sardonico della fine del
«secolo breve». Amodio si attestò negli ultimi anni di vita in un discorso di fine della storia. Majorino alla storia sostituisce l’utopia; e nell’ottantaquattresimo canto abbiamo un
sogno o piuttosto l’illustrazione di un “sogno filosofico”[60].
È il primo accenno di quella utopia anarchica che viene sviluppata in forma
narrativa nella parte finale del poema e
che mi pare di poter dire egli tentò di praticare assieme ad altri
nell’esperienza, che ho già citato, della rivista Manocomete,[61]
che rivedo nel Paradiso nervoso in filigrana. Il peso utopico del
Gruppo Protagonista mi pare però stanco. Manca il legame tra questo Gruppo e il
resto della società. Le tragedie shakespeariane non lo toccano mai davvero (non toccano mai il ceto medio).
Toccano gli estremi: i dominatori e i dominati (qui mafia e migranti, questi
ultimi fantasmi forse del proletariato sconfitto).
Unità e molteplicità nella forma-poema
«Uno dei
maggiori problemi del poema riguarda proprio i personaggi[62], che ormai sono diventati
ben quarantatré. A qualcuno, che mi dice "vorrei entrare", dico
"aspetta", finendo col lasciarci così […] Se all'inizio i
protagonisti erano solo tre, ora stanno diventando quattro e, forse, cinque.
Sono: il Rappresentante (una specie di essere giovane e gioioso, ansioso di
autonomia lavorativa), il Professore (insegnante di Sinistra, ma sempre
mantenente insieme altri problemi cruciali, amorosi e inerenti al proprio lavoro), il Critico (un po’ più adulto, che
si occupa saggisticamente della letteratura
ed è ingolfato in varie vicende, ance sentimentali) ». (Surliuga, Idem, p. 115)
Ancora una dichiarazione di Majorino
per introdurre un altro tema del Viaggio:
il rapporto tra l’io e i molti. Egli lo
affronta in due modi: creandosi della maschere (il Rappresentante, il
Professore, il Critico) che hanno una qualche relazione con l’esperienza del
suo io autobiografico;[63] avanzando, non senza
tentennamenti, verso la folla dei molti
conosciuti (o inventati, com’è il caso di Ariele,[64] il rappresentante
dell’immaginazione) che l’incalzano.
La sua sfida al Tempo passa
soprattutto attraverso un corpo a corpo con molteplici figure (protagonisti,
personaggi, pers: questa la graduazione che ne dà[65])
tratte prevalentemente dalla sua esperienza diretta di “abitante-amante” della
metropoli milanese e dalla lezione di
altri scrittori “metropolitani” come Baudelaire ed Eliot, che indica tra le sue
principali «fonti artistiche e intellettuali».[66]
A proposito dei personaggi la questione che pongo è questa: i molti entrano nel poema da
sé, quasi per una loro intrinseca forza? O c’è un io-legislatore o controllore
più o meno severo che li fa entrare? È questa seconda ipotesi, forse in certi
casi con delle attenuazioni, che mi pare valga ancora per Majorino: è l’autore (l’io) che mantiene
per quel che può il ruolo di legislatore (“aspetta”).[67] E, perciò, a me pare giusto sottolineare, contro
chi sostiene che una poesia “si fa da sé” o che sono “le parole che scelgono da
chi farsi scrivere”, che nel Viaggio il giudice che stabilisce
ingressi e gerarchie (protagonisti, personaggi, pers) è ancora lo scrittore, l’io scrivente. E non in astratto, ma in base a quello che la
memoria, attivata dal processo vivo della scrittura e sempre selettiva anche quando “involontaria”, ancora gli
rimanda dell’esperienza vissuta (fonti culturali comprese).
C’è poi un altro
problema. È un luogo comune oggi dare
per assodata la crisi dell’io “autoconsapevole”. Ma qual è il grado della crisi
a cui sono pervenuti o pervengono i singoli io concreti? Majorino insiste a dire che l’io oggi è «un
singolo di molti». Questa formula vorrei interrogarla e non accoglierla
ossequiosamente. Cosa significa davvero? Che succede a un singolo quando
diventa/si fa attraversare dai molti?
Chi sono e quanti sono poi questi molti
che l’attraversano durante la sua (limitata) esistenza? Quanto o come scavano in lui?
Non ce la caviamo
affermando genericamente che si tratta di una «molteplicità eterogenea e in
divenire».[68] Non c’era forse tale molteplicità già agli inizi del Novecento? È la stessa di oggi? No,
tant’è vero che si dice che non dobbiamo più pensare all’uomo-massa, ma a «una
dimensione certamente più caotica e pulviscolare dunque meno intelligibile,
dell’esserci su questa terra».[69] Per me è troppo poco.
Specie se penso a tutto il controverso discorso filosofico-politico (io
preferirei parlare piuttosto e più coi piedi per terra di apertura di discorso) tentato su basi spinoziane da Hardt e Negri
in Moltitudine[70].
Mi chiederei perciò:
nell’«io polimorfico e polifonico di Majorino» [71] quanto resta di “io” (o
qualcosa di affine al “vecchio” io) e quanto si fa “molti”? Da scrittore
europeo colto e che fa ancora riferimento ad Hegel, egli ha consapevolezza di dover dare comunque una forma a questa molteplicità e – in parte
contraddittoriamente secondo me -
ha scelto, mosso ancora da una nostalgia d’unità, la forma
poema. Gli è parso che, pur in quella che egli definisce epoca del gremito,[72]
potesse essere un buon filtro rispetto al caos del molteplice contemporaneo. Ma
la scelta della forma-poema è – volenti o nolenti - una scelta a favore di una tradizione letteraria storicamente caratterizzata
dalla distinzione in generi. E allora mi viene da dire che, anche se la molteplicità avesse radici vissute e
profonde nella biografia di Majorino,[73] per
quanto possa essere in rovina l’istituzione Letteratura, o forte la sua critica allo “specifico
letterario” e all’accademismo, il legame con la tradizione letteraria ( e con
l’”io” che essa ha plasmato per secoli) è – mi pare - ancora irrinunciabile per
lui.
Ma a questo punto
due domande conclusive: cosa immette Majorino nella classica (unitaria)
forma-poema? e cosa diventa essa dopo questa immissione? Rispondo ancora con le sue parole:«elementi della
poesia, della narrativa e della critica», «punti …rigorosamente di poesia e
altri di prosa, con delle vie di mezzo, che ho chiamato "rigaversi"»[74]. In sostanza, egli fa
saltare la distinzione tra i generi, fondamentale di quella tradizione e della
forma-poema.
Trascuro le
obiezioni di chi si scandalizza per la sua operazione
e anche l’analisi delle sue motivazioni più “personali” per una tale scelta
stilistica. Indico innanzitutto la contraddizione. Viene, infatti, da obbiettare: se Majorino è così attirato dal molteplice, perché scegliere una struttura poematica (quasi
“dantesca” nella sua divisione in libri e canti) per un’opera che la smentisce? Oppure: se ha avuto “nostalgia del poema” tanto da
ricorrervi, che fine fa la molteplicità
così “ingabbiata” in libri e canti? In altri termini, senza lasciarmi catturare
dal suo entusiasmo[75]
e partendo dalle sue stesse premesse, porrei una
questione che mi pare irrisolta, anche dopo questo suo tentativo: fino a che
punto l’io (= forma poema) può davvero
essere «singolo di molti» (= può contenere la molteplicità dell’epoca del gremito)? L’obiezione di fondo,
che a me pare giusto muovergli, è questa: dare per raggiunta la costituzione di
un io «singolo di molti» elude le immense difficoltà che i conflitti drammatici
o tragici della storia passata e presente ci pongono sotto gli occhi. O, in
altri termini: il suo ossimoro «similidissimili» rischia di essere inteso
(soltanto da alcuni?) quasi come una sintesi già raggiunta, invece di una
allusione – questa è la mia opinione - ad un processo conflittuale in corso e
aperto a tutte le soluzioni.
È innegabile, tuttavia,
che la direzione del Viaggio è
coraggiosamente verso i molti. E però vi vedo chiamati a raccolta tutti i
“doveri- piaceri” dello scrittore novecentesco, che non rinuncia ad esplorare
il caos contemporaneo, ma a dargli forma per non farsene fagocitare. Da qui una
tensione continua e irrisolvibile e il sostare ora più in uno, ora più
nell’altro dei due poli. La forza di questo esperimento
è nel tenere le briglia ad entrambe le contrastanti spinte. Non mi sento perciò
d giudicare in base a una astratta logica e porre degli aut aut. Sono consapevole
che l’io può spappolarsi sotto la pressione dei molti. E anche Majorino lo è.[76] A me resta l’impressione
che, nel Viaggio, da una parte il
singolo fa sentire ancora forte il suo individualismo
più che la sua singolarità svelando le
sue nostalgie di scrittore cresciuto nel culto di Dante, di Hegel, ecc; e che,
dall’altra, fa di tutto per staccarsi da quell’unità, da quella tradizione,
dalle ferite e dai limiti ormai da tempo palesi dell’io,[77] proiettandosi in avanti e
trovando però ancora una volta e irrimediabilmente soltanto il trampolino rischioso dell’utopia (leggi:
Paradiso nervoso).
Il
risultato è che, a rigor di termini, il
poema non c’è, anche se questo non mi pare proprio un limite. C’è la
divisione in libri, ci sono i canti, ci sono i versi, ma la forma unitaria,
lineare, conclusa non c’è più.[78]
Al suo posto cosa abbiamo? Un “poema ibrido”? Un poema «singolo di molti», se
vogliamo adottare la sua formula. Un qualcosa di
composito (versi e prosa), di plurale, di inconcluso, potremmo dire persino di
“trans gender”?[79]
La Forma del Viaggio
Il linguaggio
poetico di Majorino, così lontano da quello standard o “normale” della comunicazione di
massa a cui siamo assuefatti, colpisce immediatamente il lettore. Lo spostamento che, come dicevo, egli ha
teorizzato dagli anni Novanta, ha proprio sul piano linguistico una sua
applicazione evidente. Vari suoi critici ne hanno parlato nelle recensioni con
entusiasmo.[80]
Altri si ritraggono o disapprovano. La divaricazione dei giudizi su questo
aspetto è forte. Majorino ammette di strapazzare le esigenze di comprensione o di
facilitazione della lettura, ma resta
nella posizione del “vorrei, ma non posso”. Vorrebbe andar incontro ai lettori,
ma poi fa prevalere l’esigenza di porre se stesso di fronte a «questa grande incessante
complessità»[81]
e invita tutti a farlo ( a seguirlo…).
La preziosa intervista a Victoria Surliuga elenca parecchi
degli “sperimentalismi” del Viaggio, che immediatamente saltano agli occhi
del lettore sconcertandolo spesso, e ne chiede conto. E Majorino spiega, a
volte motiva le sue scelte o preferenze, a volte dichiara lealmente di non aver
ancora capito le ragioni che lo portano a un certo uso del linguaggio.[82]
Questo che egli
chiama «modo-stile» non è del resto una novità. Operante sotto traccia già nel
suo poema d’esordio,[83] venuto
alla luce senza più censure con Provvisorio,[84]
agisce in tutta la sua scrittura, anche in quella saggistica.[85]
Anch’io vedo nel suo linguaggio (e questo stesso poema)
come un sintomo, un
enigma se si vuole, come dice Berardinelli.[86]
Va interrogato però e non respinto come lui fa. Una «passione iconoclasta» mi
pare attiva nella scrittura di Majorino; e agisce anche nel poema. Ma
la forma «senza
limiti e senza confini: versi e prosa, politica, idee, incontri ,sogni, filosofia,
appunti», questa dismisura che,
contraddittoriamente come ho detto, cerca di stare nella misura dei libri e dei canti del poema, non è di per sé una patologia. Può essere anche
molto vicina al nichilismo, ma nel senso che Paolo Virno dà al termine: «nichilista
è una prassi che non gode più di un solito fondamento, di strutture ricorsive
su cui far conto, di abitudini protettive».[87]
Del resto il momento iconoclasta o “distruttivo”
(o “picassiano”[88])
della sua ricerca è accompagnato dal tentativo “costruttivo”, che nel Viaggio è l’ultima parte, Paradiso nervoso. Nessun dubbio che qui
agisca una volontà utopica di costruire.
Semmai le mie riserve in proposito riguardano sia la forza dell’utopia, che a
Novecento concluso appare logorata, sia il tipo di utopia proposto, che a me
pare troppo «cetomedista». Il problema
dell’adeguatezza delle scelte linguistiche del Viaggio alla “realtà” in trasformazione resta comunque aperto,
perché il «modostile»
di Majorino a me non pare che risolva certi problemi.[89]
I problemi della ricezione
Il modo con cui finora il
Viaggio è stato accolto, sia da
lettori favorevoli che tentennanti o
ostili, dimostra l’assenza di un discorso critico sulla poesia italiana
contemporanea.
Da parte dei primi si
sono registrati elogi, approvazioni di superficie, parafrasi e spesso
ripetizioni acritiche delle dichiarazioni o delle formule più frequenti usate
da Majorino (concetticona, corpo di corpi, singolo di molti, dittatura
dell’ignoranza). Nei secondi si ha il rigetto a volte viscerale e risentito e la riduzione piatta e
pigra del poema ad un passato politico e
culturale, prima osannato e ora demonizzato.
Ora proprio lo scarto vistoso tra il livello raffinato di
ricerca poetica del Viaggio e la
produzione corrente di poesia (in genere “facile” “comunicativa”, “selvaggia”,
“iperlirica”) richiederebbe un’interrogazione critica capace di mediare modi di
pensare e di vedere che tendono ad ignorarsi. Ci vorrebbe un paziente lavoro di
mediazione e di traduzione reciproca:
da un linguaggio “difficile” a quello “facile” e viceversa. Altrimenti ognuno
resta nei propri recinti, incolpando gli altri.
La ricezione odierna del Viaggio è, dunque, per me azzoppata e
quasi impedita anche da altre e quasi
opposte ragioni: nei più anziani dalla rimozione non solo degli anni Settanta,
ma dell’«antefatto taciuto» attorno al
quale il Viaggio si aggira; e nei più
giovani dall’ignoranza e dal disinteresse per il dibattito filosofico-storico-critico
che il Viaggio presuppone e al quale
spesso rimanda.
È per questo credo che i
contenuti storici, filosofici, sociologici, ideologici del Viaggio non vengano quasi mai esaminati o al massimo intravisti da
qualcuno dei recensori. Nei casi migliori la loro attenzione si sofferma per lo
più sulla forma, il linguaggio, l’analisi delle figure retoriche più frequenti;
nei peggiori si arriva a una esibizione poco controllata delle proprie
preferenze culturali sovrapposte all’analisi dell’opera (non so quanto letta) .[90]Si tace poi sul ruolo che
può avere quest’opera di Majorino nel clima culturale odierno: lo contrasta
davvero? vi si adatta? è “superata”? è troppo “in anticipo”? Insomma, anche
quando i recensori se ne occupano, si
ritagliano questa o quella sezione, e
rivelano lo scolasticismo, una prudenza paralizzante, l’elusione dei problemi
più scomodi, il plauso di maniera, a volte l’imbarazzo. [91]
Esemplifico per non stare
sul vago. C’è chi[92]
esalta l’«accumulo», inteso come «stratificazione di voci narranti, stili,
registri linguistici, materiali testuali, eventi», presentandolo come «una
strategia retorica efficace per interrogare lo spirito dei tempi», ma non si
chiede che cosa si ricavi da tale interrogazione. Oppure, confrontando Majorino
con Musil e affermando che ne L’uomo
senza qualità «l’ordine è anteriore, nascosto nel motore romanzesco e nel
progetto unitario e totalizzante» e nel Viaggio
«l’ordine sembra posteriore, nonostante la struttura chiusa e forte, in
libri e parti», ne deduce che il modernista Musil resta fermo a un «tentativo
totalizzante di significazione del mondo» chiuso in un «tempo eterno,
extra-storico», mentre Majorino calerebbe il tempo dell’opera «nel tempo
storico, nel tempo della scrittura». Noto non solo la disinvoltura con cui si
fa coincidere tempo storico e tempo della scrittura, ma quanto riduttiva (dal
mio punto di vista e per quanto ho scritto prima) sia vedere il Viaggio «calato nel tempo storico». C’è
poi chi[93] è affascinato
acriticamente soprattutto dall’anarchismo linguistico del poema. E chi[94] accentua il valore
dell’utopismo contro la storia senza coglierne il limite e il rischio
autoconsolatorio. C’è chi[95] poi ne esalta soprattutto
il relativismo. E chi[96] si limita ad evocare
nonno Joyce per l’enfasi posta sull’epica
del quotidiano. E infine chi[97] dà rilievo al tempo
storico, ma mi pare (per quanto detto sopra) in modo unilaterale, poco
valutando l’operazione di stingimento del tempo storico nel Tempo.
[1] Non ho avuto tempo di intervenire su altri forse di
eguale importanza. In particolare, quelli riguardanti i corpi, la donna/le
donne, il femminismo.
[2] Da Victoria Surliuga, Nell’epoca del gremito. Conversazioni con
Giancarlo Majorino, Archivi del
‘900, Milano 2008: «È un fatto sicuro l’essere stracarico di esperienze,
incontri, conoscenze» (p. 111); «cosa significa l’avere a che fare con
il proprio passato vivente, custodito in sé e scritto, scritto nel poema e per
il poema? Un problema che mi ha affannato e che mi affanna, perché non è
risolto. Prossimamente ha anche il
grande ( nel senso di impegnativo) carattere di provare a presentificare alcuni
modi del poema insieme a modi
dell’immediatezza» (p. 121). E poi considera testo «di rottura» il suo Gli
alleati viaggiatori proprio perché
ha «al centro del proprio esserci questo
nuovo modo che è il presente» (p. 120).
[3] Eccone alcune:
- «”Viaggio nella presenza del
tempo”, come intenzione mia, è l’idea di un vivere che però ha sempre molto
presente il tempo stesso. Questo poema è anche un viaggio nella storia. Si
parte dalle mie esperienze minime da ragazzo (ho una tonnellata di anni, ne ho
viste tante…) poi il fascismo, la guerra mondiale, il dopoguerra, quello che
succede adesso…Esperienze intese sempre come se ci fosse una specie di
freschezza del presente. Dappertutto, anche nel passato. A questa concezione è
servito anche il fatto che fossero quarant’anni che stavo dentro a questo
poema» ( Intervista a G. Majorino dal sito www.ospiteingrato.org)
- «In un primo momento, il titolo
generale dell’opera doveva essere quello che apre la terza parte – Attimi, eterni giorni, annate brevi –
per dare l’idea di questa oscillazione semicaotica che attraversa il libro. In
questo modo, però, non veniva secondo me toccata adeguatamente come nel titolo
attuale un’altra faccenda che mi stava a cuore, che non era solo la
discontinuità del tempo, ma anche la perpetua presenza e dell’oggetto e del
soggetto. Nella prima parte parlo dell’enorme antefatto taciuto, lì ci sono
testimonianze proprie, oppure testimonianze di vari autori, che in qualche modo
giustificano quella presenza del tempo, come se uno fosse là, fosse stato là, e
questo vale per il passato, vale per il presente, ma vale addirittura anche per
il futuro» (G. Majorino intervistato da A. Inglese in
L’immaginazione n. 242,
ottobre 2008 )
-
«Il poema di M. è essenzialmente fenomenologico. Ora, la fenomenologia
mira a mostrare (ma sarebbe meglio dire a scrivere) le operazioni della
coscienza attraverso le quali si
costituiscono i significati. La coscienza di Husserl, il campo trascendentale
di Sartre, la radura di Heidegger, il piano d’immanenza di Deleuze sono tutti
segnali che conducono appunto alla “presenza del
tempo”. In questo trascendentale trovano posto il corpo vivente e percipiente,
uno con il mondo, supporto e cornice del mondo, come anche il mondo è uno con
il corpo.» (Alessandro Carrera, in L’immaginazione
n. 242, ottobre 2008).
- «La storia del tempo
può avere più significati, ma vuole anche dire necessità della presenza.
Bisogna sempre avere presente il tempo: quello che passa ma anche questo
presente, compreso questo momento in cui noi due stiamo parlando. Ognuno di noi
è pieno di passato e ha delle aspettative di futuro, ma è proprio il presente
che a me è sempre interessato. Pensando che la vita sia unica, questo presente
acquista un valore maggiore» (G. Majorino intervistato da Paolo Barbieri, in G.Majorino poeta militante, Che libri
lug-ag 2008, n.3)
- «Passano sotto l’occhio del
lettore gli ultimi quarant’anni, come visti al presente […]. Ma in realtà il
poema va più indietro […] visto che la storia – e innanzitutto la storia
interiore (chiamiamola così) di ognuno – non può non inseguire i fantasmi
persino più abietti e però cruciali. Va il libro in versi, a ritroso, a quel
trauma violento del fascismo, al filo nero e insanguinato»(Enzo Di Mauro, La poesia di Majorino, in «Galatea» lug-ag 2008)
[4] Anche se tu, nell’intento di
evitare a tutti i costi e in ogni campo i dualismi, vere bestie nere del tuo filosofare, parli di un tempo soggettivo-oggettivo,
bergsoniano e “scientifico” assieme.
[5] È l’orologio, infatti, che ci
segnala, quando lo vogliamo sapere, lo scorrere “oggettivo” del tempo, ma che
ci avverte - automaticamente, contemporaneamente, indirettamente - che la
nostra vita sta “passando”, che ”stiamo perdendo tempo”. È da tener presente,
parlando di tempo, questo passo di Fortini su Proust: «abolizione di ogni
contraddizione, in una sconfitta del Grande Nemico – il Tempo – in una vittoria
sull’angoscia di morte mediante l’inserzione di continue parcelle di morte per
entro l’esistenza quotidiana» (F. Fortini, Ventiquattro
voci per un dizionario di lettere, pagg. 49-50, Il Saggiatore, Milano
1968).
[6] Victoria Surliuga, Idem, p. 12.
[7] O «modo stile», come egli
preferisce dire: «modo-stile,
cioè questo stile diverso, estremamente
libero. Quindi uno stile che non abbia paura della variazione continua» (G.
Majorino intervistato da A. Inglese in L’immaginazione n. 242, ottobre 2008 ).
[8] Dalla frettolosa lettura della già citata voce
di Fortini (Cfr. nota 5) traggo per ora questi possibili spunti da
verificare: anche il poema di Majorino: 1) può essere considerato opera di una
vita; 2) è una ricerca tesa a recuperare se non l’«essenza», termine di cui diffida, la parte “presentificabile” del passato; 3) ha una
zona consistente di autobiografismo disperso e riassorbito in una folla di
personaggi; 4) ha «uno stile raziocinante a un tempo e lirico, necessario ad
affrontare quel viaggio contro il tempo»; 5) a una prima lettura appare
caotico, ma rivela poi «una trama di rispecchiamenti, di temi, di
sdoppiamenti».
[9] Preferisco usare
questo termine majoriniano invece di ‘piccolo borghese’, più ottocentesco e
legato a una stagione di dibattiti e polemiche che impedirebbero di cogliere
novità e problematicità della situazione d’oggi. Riporto, però, tre brani di
una utile recensione ad un’analisi
storico-politica: un esempio del ripensamento in corso del ruolo nelle società industrializzate del ceto medio:
Sandro Mezzadra, L’impiegato senza qualità, il manifesto 3 marzo 2000 ( Recensione a Mariuccia Salvati, Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro delle democrazie nelle scienze sociali degli anni trenta, Bruno Mondadori)
1.
“...sospesa tra una dolorosa e mediocre quotidianità e la
sperimentazione di nuovi stili di vita nella Germania weimariana, la classe
media parve giocare il ruolo preponderante nei grandi smottamenti che
condussero Hitler al potere; protagonista e simbolo dei nuovi modelli di
consumo e benessere che si diffusero nel dopoguerra, sembrò incarnare la
concreta utopia di una società finalmente integrata al di là dei contrasti di
classe...”
2.
Nel dibattito statunitense degli anni Trenta “la classe media si
avviava a divenire il centro di un’economia morale fondata sul carattere
“privato” del sacrificio compiuto da una moltitudine di
individui per appropriarsi di saperi e competenze “socialmente utili”. E’
proprio questa funzione di centro di una nuova “economia morale” l’elemento che
sembra accomunare i destini della classe media nel “secolo breve””
3.
“Il riferimento alla centralità della classe media significa
legittimare come sacrifici reali solo quelli che avvengono al centro della
segmentazione sociale... Gli spazi di autonomia
che si manifestano nei nuovi stili di vita e di consumo risultano così
coniugati con la persistenza di una ferrea etica del lavoro. Trattandosi poi di
un’autonomia privata prima che individuale, essa si accompagna con una
ricomposizione familiare delle mansioni sia produttive che riproduttive, di
modo che viene comunque salvaguardata la “naturale” gerarchia tra i sessi.
All’ombra di questa “economia morale” middle class.. il lavoro operaio
senza qualità e senza virtù viene progressivamente espulso dallo spazio
pubblico così come la discriminazione che continuano a subire gli afro-americani”
Andrebbe
anche tenuto presente il recente libro di Sergio
Bologna, Ceto medio
senza futuro?, Derive Approdi, Roma 2007. E farei anche un confronto tra il
cetomedio come appariva in La capitale
del Nord e quello del Viaggio.
[10] Isolo due punti in cui Majorino dà ad essi la sua
voce: «siamo i cetom e stiamo, grovigli di contagi/ un po’ schiacciati tra due
opposte schiere/ complementari… sicché noi potremmo, impregnati di sogni/
d’equità e libertà, provare a filtrare…» (pag 250, ottantasettesimo canto); e a
pag. 264, nel contesto drammatico delle scene, in cui accosta mafia e
personaggi tragici di Shakespeare (i
potenti): «noi cetomedisti, testa fuor d’acqua, galleggiavamo tristi, in
qualche caso/ fattici per forza pensatori, intellettuali, artisti; sopra appena appena ai lavoratori».
[11] Forbice e Torcia sono le
due immagini allegoriche che potrebbero stare per il divario tra ricchi e
poveri e per la distruttività del sistema di potere dominante.
[12] «La quarta parte del poema si
chiama “Paradiso nervoso”: può significare tante cose, ma può anche esprimere
la difficoltà di un’utopia. Di un paradiso che magari c’è già parzialmente qui.
Se guardo la vita delle persone, vedo che ha già in sé degli elementi di
modificazione forte, solo che non sono né politicamente rappresentati, né
trattati sul serio dall’arte e dalla cultura. Il paradiso è qui; che sia
nervoso è ineliminabile. D’altra parte è chiaro, noi viviamo tra gli elementi
affabili…c’è chi muore e chi non ha da mangiare.» (Intervista a Majorino sul
sito www.ospiteingrato.org)
[13] In effetti, a me pare questo il
vero «antefatto taciuto» del poema.
[14] Vedi
ancora il passo della nota 11:«La quarta parte del poema si chiama “Paradiso
nervoso”: può significare tante cose, ma può anche esprimere la difficoltà di
un’utopia».
[15] In
dissenso con Majorino mi sento di dire che i “rivoluzionari” del ’68-‘69 non
erano soltanto “testavuota”: fecero la loro scommessa spingendo gli studenti
(ceto medio in formazione), l’unica forza sociale nuova emersa dal grigiore
democristiano seguito alla sconfitta della Resistenza, ad allearsi con gli
operai, a loro volta unica forza sociale
che ancora coltivava una memoria di opposizione al potere dei dominatori (se
non di rivoluzione, come forse ci si illuse). E i «simili dissimili» del
biennio ’68-’69 erano, mi pare di ricordare, più vari socialmente di quelli che
egli ora ha chiamato a raccolta nel Paradiso nervoso.
[17]
Malgrado i limiti di una intervistatrice troppo “discepola”, questa
intervista è davvero decisiva, un vero serbatoio di spunti e chiarimenti della
ricerca di Majorino.
[18] «Mi
autochiedo se questa mia concezione, del singolo di molti, della somiglianza,
abbia senso in un mondo di questo tipo»( Sur 82)
[19] Vedi
nella conversazione del 30 luglio 2002 un accenno di Majorino al comunismo che
non viene per nulla ripreso dalla Surliuga: «Certe volte penso che
l’orrore, diciamo “occidentale”, del comunismo, per il comunismo, sia nato
anche da questo identificarlo con le cose meccaniche, ma è pure un esorcismo,
essendo sempre più la nostra società identificabile con la meccanicità, con la
tecnica» (Sur 102)
[20] Ne vedo le tracce in alcuni
pensieri quasi marginali emersi nell’intervista a Victoria Surliuga. Ad es. :
«attraverso la città e vedo i tossici. E coloro che esercitano potere sugli
altri, vera causa anche del degrado» (p. 98). Oppure: «In molte mie poesie
anche dell’inizio è segnalata la condizione di privilegio di chi scrive» (p.
99).
[21] Mi riferisco alle pagg. 95-96
dell’intervista a Surliuga, quando Majorino commenta un suo testo, Una vestaglia gialla interna al corpo (in
Autoantologia, p. 233).
[23] «Sono cauto nell’uso della parola
“essenza” perché dichiara una dualità che non accetto. Penso che l’essenza
delle cose abbia una funzione di traino verso qualcosa di inesistente e
puramente inventato… l’essenza per me è il presente pieno di corpi di corpi.
Però chiamarlo essenza è falso» (Surliuga, Idem, p. 70)
[24]
Una dichiarazione in tal senso: «È difficile che una donna riesca ad
agire con i propri modi che sarebbero così attraenti perché sono i modi
dell’unità di una persona: noi siamo dualisti. Comunque le donne determinate a
maturare diversamente sono parecchie. ..e lo si deve, in Italia, pure questo,
per gran parte, al ‘68» (Surliuga, Idem, p. 42). Lo
ribadisce ancora parlando di «apparenti opposizioni» (Surliuga, Idem, p. 69)
tra pensare e immaginare a proposito del termine ‘concetticona’ (Surliga, Idem,
p. 68)
[25] Esemplifico. Gli scambi di cui
parla sono quasi sempre di parola e quasi sempre duali («Io e te stiamo
parlando… ci diciamo delle cose, ci guardiamo, cioè tra noi continuano a
esserci passaggi continui» (Surliuga, Idem, p. 8); «Esserci è: “essere” e “ci”,
cioè esserci noi, per esempio noi due, qui. Ecco qui c’è un esserci, Enrica di
là in cucina fa parte sì e no» (Surliuga, Idem, p. 71). Ma già quando entra in
gioco il tema del denaro o del sesso, egli stesso deve “indurirsi”, prendere le
distanze, ricorrere ad un realismo dal taglio più freddo e a volte sadico.
[26] Surliuga,
Idem, p. 8
[27] Ce lo
dice nell’Apertura ricordando che
«era il ‘68/ o poco dopo […]e già gridava il poema: ti voglio qui!» (pagg.
11-12). Lo precisa in dettaglio nell’intervista: «[Il poema] l’ho cominciato
nel ’69, mi ricordo ancora la sera, allora vivevo in via Melloni, dove avevo
uno studio all’ultimo piano. Sotto c’era il cinema Cielo (dicevo “andiamo al
Cielo” per dire di andar su) e mi ricordo quel me che fissava i vetri e oltre i
vetri dell’unica finestra… Probabilmente era già lì che vegetava da secoli»
(Surliuga, Idem, p. 43).
[28] «A questo libro [Provvisorio] ho lavorato per undici
anni, mentre venivo coinvolto e colpito tremendamente da una disgrazia
personale, la paralisi e poi la morte di
mia madre, una cosa devastante e,insieme, dal risucchio che stava distruggendo
il ’68 e le sue possibilità. Quindi due lutti violenti e a un certo punto mi
chiedevo cosa fossero le poesie, quale senso avessero eccetera»(Surliuga, Idem,
p. 54)
[29] Le mie riserve sul concetto di spostamento sono di lunga data. Le
scrissi già ai tempi di Manocomete in
alcuni appunti dell’agosto 1995,
dove muovevo varie obiezioni («Banale
chiedersi: ci si sposta da dove, per andare dove? come?»; «Altri
approfondimenti richiederei sul chi si
sposta. Sono solo “persone”? sono “pensatori di professione” e non più
“intellettuali”?»), chiedevo di leggere «il paesaggio culturale italiano (ma
perché solo quello?..) alla luce dei grandi processi di mondializzazione che
sconvolgono tutti i paesi» e «mappe:
da una parte delle correnti di pensiero, delle istituzioni, dei managers
responsabili del degrado culturale; e dall’altra nomi dei “nostri grandi” o
delle poche “eccezioni” che hanno resistito o
resisterebbero». Sostenevo anche: «tutte le “nicchie” sono state
sgradevolmente coinvolte nel degrado generale e non è verso di esse che
possiamo spostarci (secondo un
tragitto che dalla Cultura di massa portasse ancora a qualche Cultura intatta, autentica)».
Indicavo pure nell’esperienza di Manocomete
«un limite di politicità (e dico politicità,
sia per intendere potenzialità politica sia per distanziare il mio discorso dalla politica, dalla politica di fatto o corrente.
Che vada al diavolo con tutto il suo arsenale di riti, spettacoli e mafiosità!)».
[30] Majorino, Poesie e realtà 1945-2000, p.25, Tropea, Milano 2000
[31] Majorino, Poesie e realtà 1945-2000, p.26, Tropea, Milano 2000
[32] Manocomete
s’intitolò la rivista che Giancarlo Majorino
diresse e animò a Milano tra 1994 e 1995, generoso ma breve tentativo di rimettere a pensare assieme, in uno spazio spostato
(memore di un precedente: Il corpo), intellettuali di varie competenze e
generazioni, alcuni attivi già negli anni Sessanta, altri dopo il 1968.
[33] Da un'intervista a M. Raffaeli, Una
solitudine felicemente rumorosa, in il manifesto 17 luglio 1999.
«Che cos’è , invece, l’esodo, un
termine dai vaghi richiami biblici e di cui molti rifondatori o rinnovatori
della sinistra diffidano? Parafrasando passo passo quello che Kant diceva
dell’illuminismo, potrei affermare che l’esodo è l’uscita della “gente di
sinistra” dallo stato di minorità culturale e politica che essa deve imputare a
se stessa. Sapere aude! (Osa conoscere!)
Abbi il coraggio di servirti della
tua propria intelligenza! – concludeva Kant. Bene, questo è senz’altro per me
il motto degli esodanti, che ritengono esaurita la tradizione progressista in
cui è cresciuta la sinistra e pensano, con Marx, che il Capitale è talmente
distruttivo da non poter essere arginato dal richiamo ai valori più sacrosanti
conservatisi nel cuore degli esseri ancora umani, ma solo dalla lotta delle sue
numerose vittime. Perciò bisogna saperlo guardare in faccia, mostruoso com’è (
ancora sapere aude! ), e combatterlo con tutti i mezzi per suscitare una nuova
civiltà contro la sua barbarie estesa ormai a livello mondiale» (da Poliscritture n.5, febbraio 2009, pag.
14)
[35] A me pare di poter
dire ancora oggi che della tradizione oppositiva a Majorino sia rimasta la
consapevolezza chiara che la società resti divisa. Anche se egli non parla più
di capitalismo o di
anticapitalismo, resta tra i poeti una mosca bianca. È raro oggi, e non solo fra i poeti, sentire
affermazioni come queste presenti in Poesie
e realtà 1945-2000 (e confluite in
pensieri e immagini analoghi anche nel Viaggio)
: «È che si discorre, si argomenta, si giudica ma il divario tra chi ha e chi
non ha (neppure da mangiare) non diminuisce, non s’attenua, cresce»(p. 22); o
sentirlo insistere sulla necessità di non dimenticare «la massa matassa dei
muti e dei semimuti, dei senza cibo, degli accoltellatori per forza, quattro
quinti del mondo» (p. 364).
[36] Sempre Raffaeli, il manifesto 17
lugglio 1999
[37] Prete su L'immaginazione
178, giugno 2001
[38] Sempre nell'intervista a Raffaeli,
il manifesto
17 luglio 1999
[39]
Surligua, Idem, pagg. 105-106.
[40] Come del resto Majorino riconosce:
«Nietzsche, da ragazzo, l'ho studiato bene,
l'ho letto con entusiasmo, in un punto di una mia poesia dico di averlo letto
prima di Marx; in Nietzsche c'è il godimento del vivere e la passione
iconoclasta, che mi piacevano moltissimo prima di Marx. Per me Marx è il
portatore più accreditato di grandi masse affamate e senza parola. Ho scritto
che continuo a leggerlo e studiarlo, ma non è
del tutto vero: è avvenuto in
un periodo della mia vita, trascorso. Anche la collocazione nella mia
biblioteca rivela questo, perché i libri di Marx continuano a salire negli
scaffali, diventando sempre meno accessibili». (Surliuga, Idem, p. 124). Ma
vedi anche: «Per un po' sono stato
ipnotizzato dalla divisione del mondo in due; continuo a ritenere tale
consapevolezza essenziale, non solo per la valutazione delle persone, però
allora era proprio come una grande scoperta. Tutti i volumi di Marx, lassù
negli scaffali più alti della mia biblioteca, li ho letti sul serio, ma perché
sono più preziosi da leggere, piuttosto che stare a sentire cosa ne traggono i
marxisti». (Surliuga, Idem, p. 56)
[41] La si legge sul sito www.ospiteingrato.org
[42] Non
sempre però e non in tutti. Specie nella più recente storiografia dei
tentativi ci sono stati. Valga il libro
di Claudio Pavone, Una guerra civile.
Saggio storico sulla moralità nella
Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
[43] Ne trovo una conferma convincente
in E. Hobsbawam. In un saggio, La storia
dell’identità non basta, scritto per
contrastare certi relativismi “postmoderni”, lo storico inglese prende spunto
dal dibattito sulla memoria dei massacri dei tedeschi durante la seconda guerra
mondiale, e in particolare di quelli
accaduti in provincia di Arezzo (ne ha parlato anche Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano
1997) e scrive: «Là, nella piazza
ricostruita di un paese che era stato distrutto, mentre ascoltavamo i racconti commemorativi che i sopravvissuti
e i figli dei morti avevano elaborato su quel giorno terribile del 1944, come potevamo non
percepire che la storia fatta da noi [storici] era non solo incompatibile con
la loro, ma addirittura la distruggeva?». Prosegue Hobsbawam:«In breve,
nessun’altra circostanza avrebbe potuto esemplificare meglio il confronto tra
universalità e identità nella storia». E conclude: «Ciononostante, proprio
questo inquieto fronteggiarsi dimostra che per gli storici l’universalità è più
importante dell’identità» ( H. Hobsbawam, De
Historia, p. 308, Rizzoli, Milano 1997).
Mettiamo, al posto di questi sopravvissuti con il loro vissuto, i
poeti e l’analogia regge: non c’è
coincidenza tra vissuto e riflessione storica. Ma, secondo me, non si vede
perché si debba cancellare (o
privilegiare) il vissuto rispetto al dato storico. E viceversa.
[44] Gilberto Isella, Il “Viaggio nella presenza del tempo” di
Giancarlo Majorino, in «Giornale del popolo» 8 nov. 2008.
[45] Senza risalire a Manzoni, io
ricordo la polemica, che a suo tempo, molto mi colpì, di H.M.Enzensberger in un
breve saggio intitolato Letteratura come
storiografia ne Il menabò 9,
Einaudi 1966.
[46] Isella, Idem.
[47] Cfr. l’ottantaseiesimo canto del
Quattordicesimo libro: Lo sguardo del congedante, p. 250
[48] Surliuga, Idem, p. 44
[49] Aggiungi infatti: «solo che poi si è tramutata in un’avventura follemente
gremita, che va oltre il ’68 e arriva fino adesso, e andrà oltre» ( Surligua, Idem p. 44)
[50] Anche in
questo si coglie il significato del tuo «spostamento».
[51] Lo prova ancora la sua
interpretazione del ’68. Esso torna esplicitamente nel ventiquattresimo canto (p. 84). Majorino
lo definisce un «ciclone di azioni», «un intero difficile da scomporre
scrivendo qui, anni dopo». Ma l’immagine-emblema scelta non è secondaria. Egli
non mette in scena l’assemblearismo turbolento, la “gioiosa” manifestazione
studentesca, lo scontro con la polizia, diventata poi foriera di “terrorismo”. La sua scelta invece
cade sull’immagine edenica, marcusiana,
di gioia sessuale con implicita dissacrazione
della politica nella figura leader studentesco rimasto pateticamente solo cn il suo inutile megafono nel notturno
cortile universitario «tra coppie nei sacchi a pelo sussurranti, sorridenti».
Il ’68 torna ancora nel
ventisettesimo canto (p. 89), quando trattando di una “scuola popolare” nel
’68-’69 il «Profsin» elenca da un punto di vista nettamente «cetomedista»
esatte ma quasi scostanti osservazioni empiriche sul comportamento degli
«operai frequentanti», sul loro linguaggio «terra terra, privo di metafore»,
sulla loro «carenza di allenamento al teorico»
e sul «pedagogismo sloganistico» degli extraparlamentari.
E ancora nel settantaduesimo canto
(p. 215): Periferia di notte. Cartelli di protesta. La corriera passa. Un cane.
Case Gescal occupate. Donne proletarie. «Una bandiera rossa da una finestra
vuota». Giovani barbuti. Cariche della polizia. È per me sintomatico che qui la
scena è raccontata dall’esterno con un freddo realismo in cui prevalgono
immagini quasi repellenti di proletari («povera e brutta gente, via da me!») e
toni secchi. La scena sembra richiedere ai passeggeri della corriera «una
dichiarazione, pratica e precisa, pro o contro». Resta in sospeso solo un imbarazzato «però,
tu con chi stai? e se loro non parlano?».
Siamo su toni più bassi e dimessi rispetto a una visione “dall’interno”
e con ricorso a complessi monologhi interiori che invece caratterizza la
trattazione dei numerosi episodi erotici del poema.
[52] O il poeta
diventerebbe un concorrente dello storico.
[53] È un dubbio simile a quello che ho
espresso verso il poema. E penso che ci sia un collegamento da fare tra storia
e poema.
[54] Cfr. nota 36.
[55] Cosa per me pienamente
accettabile: lo fece anche Dante. Non possono/devono, invece, farlo gli
storici, i quali cercano di
afferrare un evento, un periodo
nel suo insieme e sempre inseriscono un
singolo episodio in un contesto complessivo.
[56] Viaggio pagg. 34-36
[57] Viaggio pagg. 55-56
[58] La scena
del banchetto animalesco nel quarantaseiesimo canto (p. 149).
[59] Ho notato anche che parli di ‘comunanza’ e non più di
‘comunismo’. E il tuo discorso andrebbe inquadrato alla luce sia del dibattito
degli anni Ottanta-Novanta sulla complessità sia al più recente sulla ‘comunità’
e sul ‘comunitarismo’.
[60] Quello della partecipazione a
gruppi «in cui ciascuno sia un sé potenziato dalla singolarità e dalla
comunanza», essendo «cadute o in fase d’estinzione competitività, ideologismi e
l’attuale mondo di far parte di un gruppo con ruoli, assorbim. da protagonisti,
conforto di sopravvivenza» ( Viaggio
p.246)
[61] Il progetto Manocomete forse si arenò
proprio per la diversa lettura da parte
dei protagonisti della rivista della cesura storica avvenuta negli anni
Settanta. Gli anni Ottanta e Novanta avevano approfondito quella sconfitta
della Sinistra. Comunismo finito, quotidianità piccolo borghese (“democrazia”)
imperante; il ceto medio che sostituiva la classe operaia, liquidando i valori costruiti attorno ad
essa. Questi i tratti più importanti della posizione sostenuta da Luciano Amodio nella rivista. La
discontinuità forte col passato lui l’aveva colta, ma la sua posizione sembrò a
vari partecipanti a quell’esperienza (o soltanto a me?) una semplice apologia
della «democrazia vincente che è quella
di massa american-tocquevilliana» e una chiusura alle diversità sociali
che la mondializzazione già
portava nelle città italiane.
[62] Una sfilata dei personaggi, una sorta di appunto
sulle loro vicende è a pag. 98-100 di Prossimamente.
Ma vi accenna anche nell’interrvista a Surliuga:
«Perché, come
sai, abbiamo detto varie volte, il poema ha la caratteristica, inevitabilmente
anfibia, di raccogliere elementi della poesia, della narrativa e della critica.
È un lavoro particolarmente evidente in questo libro, dove certi punti sono
rigorosamente di poesia e altri di prosa, con delle vie di mezzo, che ho
chiamato "rigaversi" .
Uno dei
primissimi progetti riguardava anzitutto i personaggi, che sono di almeno due
tipi. Ci sono i "personaggi" veri e propri e i
"protagonisti". Questi ultimi sono per la maggior parte degli alter
ego parziali. Sono tutte figure che compaiono ovviamente anche nei volumi
successivi a Prossimamente».(Surliuga,
Idem, p. 115)
[63] «Ho
fatto vari mestieri, l'università, male, perché ho fatto Giurisprudenza che non
mi interessava ma i miei ci tenevano, poi sono passato, con vero interesse ed
esiti relativi, a Filosofia. Prima di arrivare all'insegnamento ho fatto tanti
mestieri, di quelli avventurosi da scrittori USA, non da scrittori italiani. Ad esempio, il bookmaker,
il giocatore professionista di bridge, il
maestro di tennis, il rappresentante di bigiotteria di lusso, sostituendo un
amico che s'era ammalato, a Roma, a Firenze, a Venezia e altre bellissime sedi,
dove, venduto il vendibile, libero anche perché avevo soldi in tasca, correvo a
visitare musei, chiese, luoghi di bellezza, scrivendo e spassandomela. Poi ho
venduto macchine per stirare a vapore, rigorosamente senza capire niente.
Insomma, tanti mestieri fatti con una certa allegria (tracce di ciò si
coagulano in un personaggio poematico di rilievo, il Rappr o Rappresentante).
Poi la vita, la vita con dentro tante vite, appunto anche perché ho sempre
fatto tanti mestieri, doppie triple vite, quadruple, mi piaceva. Mi è sempre
più interessato l'aldiqua dell' aldilà. (Surliuga, Idem, p. 34)
[64] «Ecco,
tornando ai personaggi, addirittura in ultimo mi è giunta in sorte (sono cose
che io non trattengo e che in parte considero benevole, perlomeno in parte)
l'idea di staccare un personaggio chiamandolo Ariele, che rappresenti
l'immaginazione, proprio per riuscire a dare sostanza a quello di cui ti dicevo
della fase associabile sia al vissuto sia allo scrivere. L'immaginazione è
continuamente al lavoro almeno su due zone.
Quindi, questo
Ariele si trova su una corriera che va, è produttore di uno sguardo su tutto
quello che c'è. A me capita continuamente. Lì ci sono cinquanta passeggeri e
Ariele è uno che ha uno sguardo dall'alto. Non si ferma ancora presso
ciascuno, ha sguardi dall'alto. Però poi può calarsi dettagliando, come la mia
immaginazione al lavoro. (Surliuga, Idem, p. 121)
[65] Ci sono, infatti, quelli che
egli definisce i “protagonisti”: sono «per la maggior parte degli alter
ego parziali» (Surliuga, Idem, p. 115). Poi ci sono personaggi «staccati,
soprattutto femminili, anche importanti» (Surliuga, Idem, p. 116). Alcuni di
questi «pers» sono «fonti viventi» :«una
persona vera che però viene persa come persona e diventa un personaggio», «le
persone da me incontrate, assorbite, restituite» (Surliuga, Idem, p. 117). I
personaggi tutti (o solo i protagonisti?) «devono essere collocati in ordine
cronologico, per com’era ed è la mia
età» (Surliuga, Idem, p. 116).
[66] «Sicuramente
per me Milano è il fondo, non solo lo
sfondo, del mio esserci; sono impastato da sempre con le immaginazioni e le
realtà inerenti; circa il restare in città, oltre le evidenti fonti viventi,
sono fonti artistiche e intellettuali a trasformarmi in un respirante urbano.
Molto prima di Eliot, mi ha influenzato Baudelaire, il primo grande avventuroso
portatore di una bellezza unificante solitudine e attrazione per gli altri (
un'eredità, fra l'altro, ancora disponibile, ben più ricca di molto
succedutogli). Comunque, i riferimenti a Eliot sono precisi fin dall'inizio: ho
fortemente ammirato e studiato le sue prime opere» (Surliuga, Idem, p. 46)
[67] «Io una cosa posso scriverla o no:
questo punto è spesso tralasciato. Quando e come la scrivo: nel momento in cui
diventa così urgente, fino a quando non ti torce il collo. Se no, è meglio
lasciar perdere. Purtroppo, a tanti, facendo le vitette, sembra che tutto
quello che sgorga da loro sia la meraviglia del secolo» (Surliuga, Idem, p.
118). Ma anche: «Che poi (il
personaggio) abbia una forte impronta autoriale, temo di non poterci fare
niente»(intervista a A. Inglese in L’immaginazione, n. 242, ottobre 2008)
[68] Gilberto Isella, op.cit.
[69] Gilberto Isella, op.cit.
[70] Discorso che va avanti o
si complica, come vedo leggendo un articolo di Bruno Accarino, La forza
dello sciame (il
manifesto 3 novembre 2009), il quale si sofferma su «alcune
parole del lessico politico contemporaneo, come massa e folla» e rimanda vari
studiosi contemporanei, oltre ai soliti Deleuze o Negri e Hardt, come Howard
Rheinghold, Pekka Himanen e Zygmunt Bauman.
[71] È una citazione da una recensione
di Gardella (Surliuga, Idem, p 76)
[72] Definizione suggestiva. Ma anche
in questo caso il termine andrebbe interrogato: quali differenze, quali
contrasti ci sono in quest’epoca troppo piena e affollata?
[73] «Ho la vita di tremila persone e molteplici percorsi per
cui è complicato ricondurla a unità» (Sur 33))
[74] Surliuga,
Idem, p. 115.
[75] «Ma pensa che vuol dire una
persona, ogni persona è un insieme, non siamo allenati a questo: per noi è una
delle più grandi scoperte che abbiamo a disposizione… influenzerebbe,
cambierebbe tutto» (Surliuga, Idem, p. 35).
Oppure: «essendo la città un luogo
di reali e di possibili di molteplicità di persone, ognuna in sé però in fondo
tutti similidissimili; e questo mi dà gioia, invece, di avvilirmi…così abbiamo
la possibilità di crescere quasi omeopaticamente, appoggiandoci l’uno
all’altro, facendo leva sulla simpatia o anche l’antipatia, ma comunque su un
pathos, scorrevole e continuo tra le persone» (Surliuga, Idem, p. 47).
[76] Ad esempio, parlando dei giovani
d’oggi dice : «questa storia della molteplicità riscuote molto successo a
scuola… a volte dico ai ragazzi “andate a letto in due ma in realtà siete due
popolazioni che vanno a letto”.[…] I più giovani hanno con maggiore evidenza il
problema dell’identità: l’identità propria, l’identità degli altri...La mia
generazione non aveva questo problema perché si dava per scontato che
l’identità c’era [….]- C’era più attenzione corale, ma senza perdita del sé».
(Intervista a Majorino di Lorenzo Cardilli in affaritaliani.it 12 giu. 2009).
[77] «Il poema è anche una difesa nei
confronti dell’io che si espande e che è sempre amputato se non riesce davvero
a mescolarsi agli altri a ciò che accade» (Intervista a Majorino di Lorenzo
Cardilli in affaritaliani.it 12 giu.
2009).
[78] Come non c’era già più nell’Ulisse di Joyce.
[79] Mi pare che Majorino abbia una
buona consapevolezza della distanza del suo poema dai poemi di una volta. Ma nella già citata intervista ad Andrea
Inglese colloca il Viaggio comunque nella tradizione epica («ad essere precisi si
dovrebbe parlare di poema epico-lirico, a volte epico-narrativo, spesso
epico-critico… si tratta sì di epica, ma… il rapporto con i gloriosi precedenti
è un po’ relativo»). A mio parere, stabilire se il poema che ha scritto sia davvero ancora un poema (cosa di cui io
dubito) è problema che forse non s’è posto o non gli interessa.
[80] Gherardo Bortolotti, ad esempio,
ha esaltato l’«ordinamento a posteriori» dei canti «autonomi» del Viaggio, slegati da «un disegno a priori» : un tentativo di «significazione del
mondo» ben diverso dal «disegno a priori più ampio e unitario» di Musil. Broggi
l’anarchismo di«parole e frasi sottoposte a torsioni, lacerazioni, a fusioni,
dislocamenti, scorciature, scarti, frizioni,ramificazioni, neologismi e giochi
linguistici, spesso in direzione di una mimesi critica del parlato». Cepollaro la feconda ambiguità del lavorio sulla lingua:«Da
un lato la lingua viene lavorata e ‘slogata’ perché, per così dire, fiorisca
nella sua autonomia…[e] possa segnalare la libertà sensuosa e gioiosa del dire intorno, su, prima, dopo l’oggetto
significato, dall’altro la lingua viene disciplinata e ritrovata così com’è,
così come risulta dal processo collettivo dei parlanti..» (in L’immaginazione n.242, ottobre 2008).
[81] Dall’intervista sul sito
www.ospiteingrato.com:
«Non c’è però il rischio che questa
coerenza (nel rappresentare la complessità) produca un linguaggio
incomunicabile? Che le procedure e le chiavi dei codici che crea siano di
difficile accesso? Quale lettore si immagina per il suo poema?
Negli anni ’80 mi ero ripromesso di
fare dei “rigaversi”, dei versi di comunicazione. Allora il poema si sarebbe
composto di parti complicatissime, irte, e di parti quasi di transito. Poi mi
sono accorto che l’idea falsava un po’ tutto, ho preferito che ci fosse questa
grande incessante complessità. Con tutti i rischi del caso, anche perché spero
di mutare un po’ il gusto delle persone, pure di quelli preparati. Il problema
è comunque grosso…mi piace particolarmente un commento che Szondi ha fatto su
Paul Celan, che spiega come in lui non ci sia tanto il problema di
rappresentare la realtà, ma quello di far diventare la poesia realtà. La grande
poesia l’ha sempre fatto. Il lontanissimo maestro che però ho sempre sul tavolo
è Dante… Nella Commedia si parte da una selva, lì partiva uno, qui partono in
tanti».
[82] Ecco una lista delle dichiarazioni
più significative:
- A proposito dei legami tra
significato e parola: «Un punto
che caratterizza le mie poesie è l’apokoiné, cioè il fatto che a volte una
parola può essere connessa tanto al significato della precedente che della
successiva» ( Sur 13);
- A
proposito dello scarso uso della punteggiatura: «i punti chiudono il discorso»
(Sur 14);
- A
proposito delle abbreviazioni ( tipo «immaginaz. radente»: «mi danno sveltezza»
(Sur 74) ; «Prev e Bean (usano spesso accorciare o alterare il proprio nome,
non so per quale ragione» (Cfr. p. 391Viaggio);
- A
proposito di passi poco decifrabili: «Negli Alleati
viaggiatori ci sono spesso poesie che non ho ancora capito adesso» (Sur
15);
- A
proposito del mancato rispetto della sintassi: «È come se a volte, invece di
muovermi sintatticamente, secondo le regole, facessi inserimenti continui. Ma
non solo di una parola, a volte di un intero sintagma […] Sono tutte maniere
per presentificare al massimo e far saltare la sintassi abituale, non per
voglia di chissà cosa, ma perché ritengo che quasi sempre la sintassi, proprio
perché ha questo arco giudicante, non ce la faccia ad esprimere violenze
immediate, svolte impreviste e improvvisazioni. E allora a volte è come se un
verso raccogliesse tre/quattro fatti o situazioni […] [è] un mio modostile, in
cui entra sempre questa grande accelerazione di tipo nuovo, per cui la sintassi
un po’ c’è e un po’ non c’è, un po’ è rispettata e un po’ no»( Sur 75);
-
Sulla non linearità della lettura delle sue poesie: «a volte penso che le mie
poesie si possano leggere anche andando in su, invece che andando in giù» (Sur
76);
-
Sulla sostituzione della norma con il piacere della parola: «Eh, “tra-nelle” è
bellissimo! Ecco sono stato incerto: metto “tra-nelle”, li stacco? Li metto.
Ecco l’idea del piacere del gusto delle parole che può essere continuamente
concetticona mescolato, diviso in due» (Sur 80); «Perché non hai messo la
doppia negazione?... Volevo farla più violenta… in senso antiletterario,
antitradizione… uso modi così… A me piace…modi un po’ rappresi..» ( Sur 102)
-
Sull’assenza di un ordine unitario del discorso: «[In Alleati viaggiatori] ogni
parola, quasi, e sicuramente ogni verso e ogni evento cambia
completamente la scena» ( Sur81); «non vi è mai un filo conduttore, in nessuna
poesia, anche le più brevi. Questo lo ritengo uno dei caratteri importanti, che
ha a che fare con questo “gremito” in cui viviamo.Più che fare un discorso
unico, che sento riduttivo, spesso improvvisamente, inaspettatamente, si
spalancano una ressa di indicazioni, che filano come frecce» (Sur 85);
-
Sul tuo “sperimentalismo”: «I poeti quelli veri sono sempre sperimentali. Dal
punto di vista formale io sento, con Gli
alleati viaggiatori di essere in pieno ciò che sono e che vorrei essere.
Non so se è sperimentale, sicuramente non si limita a servirsi del linguaggio
comune o di un linguaggio letterario, lo inventa continuamente. L’invenzione
continua è un elemento d’intensificazione vitale che mi appartiene a
fondo» (Sur 22);
- Sul rapporto
tra la tua scrittura e le modificazioni della realtà: «Io mi sento […] all’interno di
uno scrivere continuo che non ha termine e che non ha paletti […] Qui la
faccenda è andata altrove […] È che la realtà si è messa a correre e muta
ininterrottamente (lo si sentiva e comprendeva già negli anni Cinquanta» (Sur
25).
[84] «Provvisorio è un mare aperto, c’è un po’
di tutto: parole staccate, concetti molto vaganti, una grande varietà di ritmi
e di soluzioni… » (Intervista a Majorino di Andrea Inglese in L’immaginazione
n.242, ottobre 2008.)
[85] Ne
avevo così scritto all’uscita della riedizione di Poesie e realtà:
«Un’attenta analisi lessicale anche
di poche pagine-campione del libro evidenzierebbe il lavorio di lunga lena
compiuto per distanziarsi dal linguaggio massmediale (a cui spesso Majorino fa
il verso), ma anche da quello della liturgia letteraria; e persino dalle
provvisorie e volenterose koinè tentate dopo ogni trauma storico, che pur parrebbero più vicine
alle sue intenzioni.
Il linguaggio slegato dalle
gabbie disciplinari e dagli automatismi della comunicazione coatta di Poesie
e realtà 1945-2000 insegue il vissuto, i corpi, le emozioni - in una
parola il “vivente” - ed è nel solco
degli accaniti sperimentatori di fine Ottocento e del Novecento, da Majorino
studiati e amati. Confrontandolo con
quello dell’antologia del '77, sembra che egli si sia mosso più decisamente in solitudine.
Fa pensare a un nuotatore che
caparbiamente si trattiene sott'acqua e
si sposti in profondità per inseguire innanzitutto e soprattutto “impressioni
dal vivo” (16), che sono poi quelle stesse che guidano il suo fare poesia.
Il linguaggio di Majorino risulta
sempre orgogliosamente lontano dai
gerghi specialistici e accademici e da quello babelico dei mass media - con le
loro frasi fatte, la chiacchiera, l'ossequio ipocrita ai Valori fissi, è
ora più denso e riflessivo, ma come costretto in un bozzolo. Raggiungetemi qui,
sembra dire, e poi cominceremo a ragionare... cita…)
E invitato ad accettare la sfida che la
lettura dei suoi scritti imponeva:
«Alcuni amici si sono detti respinti dal linguaggio spostato
di Majorino. Spero che non si fermino a questa impressione, non si accartoccino nei vecchi dilemmi dello scrivere
chiaro, scrivere oscuro e non sfuggano alla sua sfida. Che bisogna
accettare, perché questo linguaggio critico-poetico, spesso arduo e
spiazzante, non solo nasce da un tentativo ammirevole di dar forma adeguata
all'“assillo del vivente” ma registra la perdita di comune (Majorino
preferisce parlare di comunanza) che ha investito la vita e i linguaggi di tutti noi».
[86] La recensione al Viaggio di Alfonso Berardinelli è stata
pubblicata su Avvenire (28 feb. 2009)
ed è, pur nella sua brevità, esemplare una reazione molto diffusa oggi verso la
ricerca di Majorino. Coglie verità evidenti e immediate: è un «poema senza limiti e senza confini:
versi e prosa, politica, idee, incontri, sogni, filosofia, appunti»; «il libro
ha un “carattere difficile”, chiede troppo al lettore, e non si fa capire». Ma
arriva alla diagnosi di una «sconfinata, incurabile patologia», per cui il Viaggio sarebbe un esempio della «
paralisi dell’immaginazione e della costruzione letteraria di fronte al
mostruoso grigiore del mondo». Il poema
– egli sostiene - non avrebbe né forma
né luce poetica perché il suo oggetto (la«Milano impiegatizia, commerciale, bancaria, operaia,
militante, manageriale, europea») non merita sublimazioni. Majorino sbaglierebbe, dunque, a voler fare
testardamente i conti, da poeta, con questo «mostruoso grigiore del mondo» e
così «chiede troppo al lettore, e non si fa capire». A me pare, invece, che
Berardinelli sia arrivato al rifiuto di leggere le trasformazioni in
corso. Avviatosi anche lui sulla strada
della contemplazione estatica o disperata del mistero insondabile del mondo, la
“realtà” per lui si è ridotta a «un enorme, indomabile inconscio biologico, un
inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi». Ma per questo
illeggibile o negata ai poeti? Sarebbe da discutere poi se la poesia, come egli
pare sostenere, debba essere sempre o necessariamente sublimazione. Può essere
anche desublimazione. Ma soprattutto sarebbe da discutere se il Viaggio
abbia assunto questa “forma informe” «senza limiti e senza confini» per
semplice mimesi del mondo confuso (o complesso?) d’oggi. Non lo credo. Anche se a volte certe dichiarazioni di Majorino
tendono a giustificare la complessità del
proprio linguaggio rimandando alla complessità del mondo. A me
vengono in mente vecchi discorsi di
Benjamin e di Fortini sulla caoticità apparente o reale del mondo (o della
“realtà”) e sull’arte, che non ne è mai la semplice mimesi. Per me il Viaggio
non è “difficile” solo perché la “realtà” d’oggi lo è ed esso ne ricalchi
fedelmente gli ardui contorni. La “realtà” sarà pure complessa o difficilissima
da intendere, ma non comanda automaticamente le scelte linguistiche di un
poeta. Nel caso di Majorino, queste
discendono da preferenze culturali, da modelli di scrittura assorbiti (quelli
delle avanguardie novecentesche), dall’influenza della psicanalisi, dall’abboandono
dell’opposizione a favore dello spostamento, ecc. Tra la scelta
di mantenere la facciata delle forme
unitarie della tradizione (la «sublime lingua borghese» di Fortini),
magari parodiandole o riempiendone gli
“interni” di contenuti moderni o
comunque più frammentari e quella di partire dall’esperienza qualsiasi e soggettiva che si ha del mondo
costruendo forme, il cui grado di compattezza o frantume non è
codificato a priori (o è meno codificato delle forme classiche) Majorino mi
pare abbia scelto questa seconda strada, con qualche nostalgia della tradizione,
che nel caso del Viaggio l’ha portato a scrivere un poema/non poema,
come ho detto.
[88] «Parlavo
in un’intervista dell’essere un picassiano e non un
morandiano (che pure è stato un grande pittore). Per me Picasso mai ha pensato
di entrare ( non aveva in mente né il momento né il modo; poi lo inserirono gli
altri) nella storia della pittura. Faceva opere pressato da un’urgenza enorme e
propria, ma di un proprio impastato con realtà comune e con i sogni di molti –
questo è ciò che mi appassiona»(Surliuga, Idem 25-26]
[89] È sufficiente – mi chiedo - che la poesia, per
resistere alla propria distruzione (e a quella del mondo) si velocizzi, insegua
l’atomizzazione, la pluralità o il molteplice, afferri gli istanti al posto dell’insieme (di quello che una
volta era la «totalità»)? I poeti oggi
devono cercare solo o soprattutto un linguaggio che afferri in qualche modo «questa grande incessante complessità», impegnandosi
in una ricerca da laboratorio e necessariamente
staccata dai linguaggi massificati, che sono comunicativi solo in
apparenza e in mano ai “dittatori
dell’ignoranza”? O dovrebbero collegarsi alle ricerche che puntano a un linguaggio
comune (il contrario o qualcosa di diverso da quello dei mass media)? Si
può far di più oggi in questa direzione? Anch’io contrasto la pigra opinione
che appiattisce la ricerca linguistica
di Majorino sul neoavanguardismo degli anni Sessanta. Credo però che, comunque, sui problemi di quella
stagione egli pure si sia mosso e che abbia
condiviso con il neoavanguardismo un certo “oltranzismo” linguistico. Motivare, infatti, la sconnessione del linguaggio ricorrendo all’inconscio (Zanzotto) o, come fa
Majorino, appellandosi alla “realtà”, che si sarebbe messa a correre già dagli
anni Cinquanta o all’«epoca del gremito», invece che con l’ideologia
(Sanguineti), significa motivare diversamente una stessa esigenza “epocale”
variamente sentita da molti scrittori. Questo “oltranzismo” è stato ed è destruens. Non vedo però realizzata nel
poema l’operazione che Gardella vi scorge: «la
lingua stessa fatta dionisiacamente a pezzi e ricomposta come nuova» (Surliuga,
Idem, p. 76). Vedo l’operazione anarchica individuale
che tanto entusiasma alcuni giovani critici, ma non la ricomposizione, che
forse non può venire da operazioni di tipo individuale o di gruppo. Non mi
convince neppure l’estremo relativismo di questa affermazione di Majorino:
«perché in fondo le poesie possono andare in tutte le direzioni e ciascuno le
deve interpretare» (Surliuga, Idem, p. 78). La plasticità del linguaggio (Finnegan’sWake di Joyce per intenderci)
e la sua polisemia portate all’estremo,
anche quando l’operazione è compiuta da un grandissimo scrittore, riducono
comunque la comunicabilità accertabile. E questo resta
un problema per chi non può accontentarsi di un atteggiamento puramente
iconoclasta o dionisiaco.
Perciò mi sento di contestare una
serie di affermazioni. Majorino dice: «[In Alleati viaggiatori] ogni
parola, quasi, e sicuramente ogni verso e ogni evento cambia
completamente la scena» ( Sur81); «non vi è mai un filo conduttore, in nessuna
poesia, anche le più brevi. Questo lo ritengo uno dei caratteri importanti, che
ha a che fare con questo “gremito” in cui viviamo. Più che fare un discorso
unico, che sento riduttivo, spesso improvvisamente, inaspettatamente, si
spalancano una ressa di indicazioni, che filano come frecce» (Surliuga, Idem,
p. 85).
Mi dico: va
bene questo andar dietro alla «ressa di indicazioni» nella fase di ricerca, ma
poi uno scrittore si rilegge (si ritrova per così dire dalla parte del lettore)
e allora perché non riordinare la
ressa, rallentare le «frecce»? Anche
la scrittura automatica dei futuristi o dei surrealisti voleva star dietro alla
velocità delle macchine o alle proliferazioni dei sogni, ma i risultati furono
discutibili.
Dice pure
Majorino: «Continuo a vedere tutti noi, me incluso, come una sorta di esseri
stratificati, la cui identità consiste
proprio nell’essere composti. Questa molteplicità e mobilità qui sono molto
rappresentate. Addirittura cambiano le parole, come tempi e persone… La famosa
globalizzazione è investita dall’interno; non si sa se si parla di uno di tre o
di molti, è dovunque»(Surliuga, Idem, p. 23).
Obietto io: ma
cosa succede nella mente dei lettori quando si trovano di fronte alla
giustapposizione di varie voci, senza possibilità di distinzione e,
soprattutto, di “traduzione” dei significati nella lingua di cui essi in quel
momento dispongono? Resta il fatto che in «questa concentrazione verbale»
(Surliuga, Idem, p. 23) il «significato più diffuso» è afferrabile, perché
appunto comune, ma i significati aggiuntivi o gli altri sensi delle parole
comuni non sono afferrati. E allora
quando Majorino dice: «I miei versi
esigono perlomeno due tipi di letture: il primo sembra chiaro e per la
terminologia e per il ritmo e per la tematica così contemporanei. Il secondo
presuppone un addentrarsi in una pluralità spesso solo balenante, affidata
quasi sempre a invenzioni o combinazioni linguistiche generanti concetticona e
viceversa» (Surliuga, Idem, p. 21), mi viene da chiedere: a chi viene affidato
il secondo livello di lettura? Al massimo verrà praticato da pochi studiosi o
lettori volenterosi. Perché allora non pensare che è nella stessa fase della
ricerca (o subito dopo i suoi primi risultati, come dicevo prima) che il poeta o lo scrittore deve o
dovrebbe egli stesso intervenire senza aspettarsi che ci pensino poi
glossatori o parafrasa tori?
Majorino dice
ancora: «Io mi sento
[…] all’interno di uno scrivere continuo che non ha termine e che non ha
paletti […] Qui la faccenda è andata altrove […] È che la realtà si è messa a
correre e muta ininterrottamente (lo si sentiva e comprendeva già negli anni
Cinquanta» (Surliuga, Idem, p. 25). Ammettiamo che sia così. Ne discende obbligatoriamente che la scrittura debba
necessariamente inseguire il
mutamento della “realtà”? Non può, per così dire, attenderla al varco? E può davvero la scrittura inseguire il movimento della “realtà”? O
ha dimostrato che lo può solo in quei
modi, non del tutto soddisfacenti per me, che
approssimativamente chiamiamo “sperimentali”?
[90] Mi riferisco, ad es.,
all’intervento di Clara Bartolini (Ok Arte Milano, apr.-mag. 2009), che se
n’entusiasma per le spinte mitiche che vi trova e una vicinanza (per lei
assodata) al «politeismo psicologico» di James Hillman. Per cui i «molti» di
Majorino diventano «molti Dei e molti [o ‘molto’?] demoni» che invaderebbero
ognuno di noi.
Ritengo spia di un modo di sentire
e pensare oggi diffuso un intervento come questo che dà per positivo e riuscito
il cauto, problematico, non privo di incertezze tentativo di Majorino di far entrare i molti
nello spazio ristretto dell’io, storicamente costruitosi da sempre su una
distinzione netta nei confronti dell’altro/degli altri. Siamo – credo - ai
primi abbozzi di grammatiche della
moltitudine, ma per qualcuno tutto è no
problem.
[91] Perciò, se rileggo le
“vecchie”, brevi ma intense osservazioni di Fortini (di un “morto”) su Provvisorio, una raccolta che oggi appare ancor di più una premessa di questo “poema”, e le confronto con certe
recensioni d’oggi genericamente elogiative,
misuro tutta la distanza da un
modello di critica vigorosa e puntuale
dai balbettii odierni.
[92] Gherardo Bortolotti (
http://cepollaro.splider.com/tag/poesia)
[93] Alessandro Broggi:
«Sul piano della sintassi, e quindi su quello del senso, parole e frasi sono
sottoposte a torsioni, lacerazioni, a fusioni, dislocamenti, scorciature, scarti,
frizioni,ramificazioni, neologismi e giochi linguistici, spesso in direzione di
una mimesi critica del parlato, alla ricerca di un linguaggio rivolto alla
realtà oltre la rassicurante cornice letteraria della pagina» (in L’immaginazione n. 242. ottobre 2008).
[94] Alessandro Carrera:
«Un nuovo patto con il tempo è l’utopia che il poema intende mostrare come
realizzabile […] I quaranta e più personaggi[…] lasciano il posto nell’ultima
sezione a pochi sparuti utopisti, una società segreta operante nel chiuso delle
rispettive case, ora denominate “ case dei minuti” per marcare la differenza
dal tempo storico e solenne che marcia indifferente tra le facciate dei
palazzi. La vita concepita come “milioni di minuti” è l’ultimo progetto che gli
utopisti di M sconfitti nella storia ma non nell’anima, si vogliono concedere
(in L’immaginazione n. 242. ottobre
2008).
[95] Giorgio Luzzi: «Il poema di
Majorino […] è policentrico, agerarchico, profondamente contaminato e revocato,
sostanzialmente sbarrato rispetto a una ipotesi di verisimiglianza[…] Esso è
insomma, dopo Freud ma anche dopo Einstein, un grandioso sfasciume dal quale
emerge enigmatica la statua del relativismo». (in L’immaginazione n. 242. ottobre 2008).
[96] Victoria Surliuga:«Il poeta stesso
aveva già avuto modo di menzionare Eliot e Dante come i principali modelli
estetici del suo scrivere. Bisognerebbe aggiungere l’Ulisse di Joyce per l’enfasi posta sull’epica del quotidiano» (in L’immaginazione n. 242. ottobre 2008).
[97] Enzo Di Mauro:
«Passano sotto l’occhio del lettore gli ultimi quarant’anni, come visti al
presente e dentro l’accadere via via grumoso o limpido. Ma in realtà il poema
va più indietro. Sia per slittamento narrativo e di senso e visto che la storia
– e innanzitutto la storia interiore (chiamiamola così) di ognuno – non può non
inseguire i fantasmi persino più abietti e però cruciali. Va il libro in versi,
a ritroso, a quel trauma violento del fascismo, al filo nero e
insanguinato»(in Galatea lug.-ag. 2008)
Ma anche, come già detto, Gilberto Isella e, su Galatea Biagio
Cepollaro, che sottolinea
( ma senza approfondire) l’intreccio tra biografia di Majorino e storia del
(nostro) dopoguerra.
Nessun commento:
Posta un commento