* Armando Tagliavento ( Fondi 1930). Scrittore irregolare e misconosciuto.
gennaio 2006
Ieri sono andato a far
visita ad Armando Tagliavento. Per me è rimasto
il bidello-scrittore, anche se ora è in pensione e nella vita (Armando è nato
nel 1930) prima di “ficcarsi nella scuola” ha fatto il manovale, il fattorino,
il disoccupato, il capomastro. Stava per diventare persino capufficio di una
ditta di materiali edili ed ha sfiorato una carriera di scrittore di
professione. Infatti, quando negli anni Settanta la cultura italiana ebbe un
ritorno di fiamma populista-neorealista (ricordo
la letteratura “operaia”: Brugnaro, Guerrazzi, la rivista Abiti-lavoro...), Tagliavento ottenne un effimero successo
come narratore: nel 1973 Feltrinelli gli pubblicò nella collana dei Franchi narratori (patron Goffredo
Fofi, che firmò la prefazione) un romanzo, Tra fascisti e germanesi. Vi narrava - con brio, spudoratezza e crudezze macabre
quasi malapartiane - le sue avventure per sopravvivere durante gli scontri che
insanguinarono l'Italia fra il '43 e la liberazione.
Io l'ho conosciuto più
tardi, negli anni Ottanta, all’istituto tecnico Molinari di Milano, dove
appunto era bidello. L’ondata del ’68-’69, che aveva sollevato la sua esistenza
assieme a quella di tanti fino alla ribalta massmediale, era da tempo esaurita
e tutte quelle speranze rivoluzionarie, studentesche e operaie, affondavano nel mondo dei vinti metropolitani.
Tagliavento passava la
giornata al suo tavolino, in fondo a uno dei corridoi a lui assegnato. Leggeva o scriveva appena possibile,
intrattenendosi a chiacchierare ogni tanto con gli studenti, per i quali era
ancora un mito, e con qualcuno dei pochi insegnanti che lo coccolavano, l'occhio
marpione pronto a scattare su studentesse e insegnanti bellocce.
Era malvisto da molti perché,
chissà da quando, aveva preso a bere di brutto, creando malumori e allarme.
Qualcuno si mosse per farlo licenziare.
Feci un cartello, interessai quel che restava del sindacato nella scuola e
un'amica dottoressa, che lo spalleggiò nella visita di controllo all'ospedale militare di Baggio a
cui l'avevano costretto. Rimase in servizio e arrivò alla pensione forse grazie
a quella mobilitazione o forse per un sussulto di tolleranza della preside. Non
senza passare però per Villa Turro, dove a suon di psichiatria - non credo
basagliana - lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato.
Suo confidente “letterario”
in quegli anni, lessi e gli commentai parte della sua incessante, fluviale e
torbida produzione di scritture, convincendomi
sia del suo valore sia della difficoltà di trovare
lettori che non si arrestassero di fronte alla sua foga espressionistica,
barocca, persino kitsch, alla monotonia dei temi (in prevalenza porno-erotici),
alle ripetitive e capricciose architetture narrative, alle trasgressioni ortografiche.
Per far
risaltare il buono di quelle pagine, gli avevo suggerito (e ancora oggi lo
faccio) di potarle da ridondanze ed eccessi, ma Tagliavento non mi ha dato mai
ascolto: rivendica gelosamente il “suo” linguaggio, il “suo” stile e continua a giudicare un oltraggio qualsiasi
aggiustamento o ripensamento. Preferisce pescare
liberamente, anche arbitrariamente, sia nei bassifondi linguistici sia nelle limpide acque dei classici. Non crede al confronto, ma
all’ispirazione, alla genialità o - detto senza moralismo e sprezzo -, alla
follia inventiva. Don Chisciotte è davvero il suo modello: aristocratico,
d’altri tempi o fuori dal tempo.
Ma come sono queste sue strabordanti
scritture? Esse presentano un lato
onirico, visionario, sublimante e un
lato ossessivamente vitalistico. Nascono da un immaginario fortemente maschile
(e maschilista). Poggiando su una base autobiografica alla quale mai ha
rinunciato e che anzi continua a coltivare
nella memoria, Tagliavento porta alla luce immagini arcaiche ed elementari
fortemente mitizzate, senza preoccuparsi della successione logico-temporale. E
si è costruito un gusto letterario delimitato ma sicuro attraverso letture di
opere della tradizione colta, popolare e di massa. Da autodidatta, in modo disordinato
ma quasi eroico, specie se si pensi alle condizioni di partenza e agli
ambienti in cui è vissuto quasi sempre
impermeabili al richiamo dei libri.
Nelle sue pagine ha macinato dati delle sue
esperienze con echi soprattutto di Gadda
(a livello linguistico), Pasolini
(per la tematica “sottoproletaria” e
cruda), dei grandi romanzi (soprattutto Cervantes,
Hugo e Manzoni per gli aspetti più visionari e tragici) e con altre influenze grottesco-populiste,
realistiche, fantapolitiche o allegoriche,
riferibili alla vasta gamma che va dai romanzi d’appendice ottocenteschi fino
ai fumetti e al cinema di Totò. Ha succhiato cioè cultura dove poteva e l’ha
rielaborata in quello che lui stesso, in questa intervista, chiama un «pot-pourri» (postmoderno potremmo
aggiungere).
Sarebbe interessante, da un
punto di vista storico-antropologico-sociale e non solo letterario, capire come
forme culturali così eterogenee siano filtrate
in uno che ha scritto da outsider e alle
prese con problemi materiali elementari di sopravvivenza e in contatto diretto con
le fasce sociali più escluse. Le sue testimonianze di vita avrebbero potuto ben
figurare tra le voci che Danilo Montaldi e Franco Alasia raccolsero attorno al 1960 in Milano, Corea fra gli immigrati presi
nel vortice delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra al boom economico.
Da quel coro di “subalterni”
però Tagliavento in parte si distacca, proprio perché accanito scrittore in
proprio più che testimone orale. Nei
fondali delle sue poesie e dei suoi romanzi s’incontrano, sì, squarci di vita
di famiglie contadine e sottoproletarie, di caserma o di ambienti malavitosi,
cioè di un tessuto sociale messo in subbuglio dal grande esodo verso
l’industrializzazione. Però, lontano da ogni rappresentazione realistica, egli accentua
nei personaggi estratti dai suoi incontri “dal vero” aspetti grotteschi,
orrorifici o stregoneschi. Fino a spingersi nel fiabesco, presentandoci eroi litigiosi e spacconi, animali parlanti e
protettivi, terribili mostri e draghi, principesse bellissime e sfuggenti oppure
battaglie ripetute fino all’esaurimento da poema ariostesco o paesi utopici
calcati su Eldoradi alla Voltaire.
Tagliavento ci mostra i sussulti dell’immaginario di un
migrante d’origini povere e contadine alle prese con il miraggio metropolitano.
E soprattutto quello erotico-sessuale dei migranti maschi, di cui ha parlato Tahar
Ben Jelloun[1] in Le pareti
della solitudine, ricordando come in fondo ai loro deliri ci sia «quella
donna sognata che, anche se è soltanto un’immagine sulla carta patinata di una
rivista», parla e tiene compagnia, alleviando e tenendo aperta una «ferita».
Quest’immagine di donna –
reale e immaginaria – è onnipresente nei romanzi e nelle poesie di Tagliavento.
I bei corpi femminili suscitano nel protagonista
maschile una voglia ossessiva di possederli e peripezie tragicomiche. E in genere tutte le
figure maschili, per lo più tratteggiate approssimativamente sotto l’aspetto
fisico e morale, hanno per così dire una vita in pubblico ridotta, perché
sempre intente a prepararsi al rituale della seduzione e del coito.
Il narratore,
quando arriva a descriverlo, molto
liricizzando il goloso godimento dei corpi, fa esplodere tutta una sensualità
orgiastica, sadica, maschilista, ricorrendo ad una batteria inesauribile di
aggettivi, iperboli, neologismi, termini bassi popolareschi o dialettali. Sia
per le immagini che per il lessico Tagliavento qui oscilla (ecco l’elemento
novecentesco) fra dannunzianesimo e pasolinismo da una parte e fiabesco e
sublimante dall’altra (ecco l’elemento arcaico, popolare). E in più si presenta
come un Gadda plebeo soprattutto per la scelta di termini sbilenchi o
strapazzati, arcaismi o chicche che, non potendo essere dotte, sono involontaria
parodia del linguaggio letterario aulico.
Il piacere non è però paganamente
goduto dai suoi maschili cacciatori. L’atto sessuale pur così ambito è giudicato
una «porcheria» peccaminosa, una pericolosa ruberia da ladri e viene animalizzato o spiegato come oscura azione demonica che sottomette tutti: vecchi e giovani, preti e
laici.
A fare le spese dell’oscuro
conflitto che accompagna questa ricerca del piacere però sono soprattutto le figure femminili, ricondotte
tranne qualche eccezione allo stereotipo popolaresco della femmina-vacca. Il
protagonista maschile paga invece il suo pedaggio diventando preda di sensi di
colpa, che lo portano alla fuga, a ravvedimenti improvvisi, moralistici e
improbabili, alla morte.
Malgrado parecchie scene
sembrino boccaccesche (lo sono secondo me solo a livello della descrizione dei
comportamenti esteriori) manca l’indifferenza
di Boccaccio verso la morale ufficiale o la comicità e la schiettezza di un Rabelais verso i
bisogni materiali e sessuali dei corpi. Tagliavento
si dibatte tra un erotismo sognante (a
livello del profondo tutto iscritto nell’orbita del materno e del bisogno di
protezione o accoglienza) e moralismo ideologico di marca cattolica.
In quel che gli resta di
vita pubblica, il protagonista delle scritture di Tagliavento è invariabilmente
eroe picaro, astuto e un po’ furfante. Va contro tutti ed è sottoposto a
continue prove per uscire dal suo isolamento. Quando gli capita poi d’ottenere
l’agognato riconoscimento del suo valore, finisce però per rifiutarlo, per
ricominciare il suo vagabondaggio fino all’annullamento-punizione finale.
A differenza infatti degli eroi delle fiabe, che sono
unitari e vincitori, quello dei romanzi di Tagliavento è scisso: ora inerme e vittima, ora spaccatutto e
giustiziere; ma comunque soccombente ai suoi innumerevoli nemici, che però sono
controfigure o emanazioni diaboliche di qualcosa di oscuro e ostile: il
Destino.
Le peripezie che questo impone vengono raccontate attraverso
passaggi bruschi e poco motivati o troppo convenzionalmente giustificati. Il narratore inserisce così nel tessuto fiabesco più
tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido - stravolgendolo dunque
- tremori e angosce esistenziali novecentesche. E così la storicità contraddittoria ritorna in evidenza:
Tagliavento partecipa a suo modo delle acquisizioni raffinate della letteratura
alta e nel contempo non ha mai abbandonato la tradizione popolare e
fiabesca del C’era una volta.
Egli ha tentato altre volte,
dopo il primo insperato successo, di pubblicare. Ma, trovate chiuse, anche per
il clima culturale mutato, le porte dell'editoria che conta, l’ha fatto qualche volta a sue spese, vendendo
(«come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria casalinga che
gli bada da una vita lavorando da
sarta) fra amici e conoscenti
qualche copia dei suoi romanzi. Forse anche per una orgogliosa e
autodifensiva autosufficienza, romanzi e poesie da lui scritti sono in gran
parte inediti. Ed egli ora ha quasi rinunciato a farli leggere, impegnandosi
testardamente a continuare a scrivere, senza neppure più aspettarsi un qualche risarcimento.
Potrebbe essere
scambiato per un semplice grafomane. Non
lo è. A me le sue scritture
sembrano notevoli soprattutto per il gusto immediato e bizzarro nella scelta
delle parole, nelle rincorse etimologiche e analogiche, nell’attenzione alle
assonanze. Sono poi un esempio di letteratura prodotta
in quelle condizioni di vita marginalizzate in cui si trova tuttora una buona
parte dell'ex-proletariato da cui è venuta
fuori l’odierna figura dei lavoratori più istruiti e dei precari laureati.
Quanti tra loro (e
penso in particolare ai nuovi immigrati) vanno oggi producendo i loro racconti
e fossero in grado di sentirsi vicini ad esponenti di quelle classi sconfitte
che li hanno preceduti potrebbero trovare nelle scritture "selvagge" di Tagliavento
un loro antenato.
***
Quand’è che hai cominciato a scrivere?
Il discorso di scrivere è
una cosa che nella mia vita salta, zompa, balugina. Non è una cosa che mi sono
prefisso. Comunque cominciò a Fondi nella zona della Ciociaria, dove sono nato,
con la figlia del maestro Spirito. Avevo sei anni
circa e doveva venire Mussolini o un federale, che si chiamava Amato (mi pare),
a inaugurare una colonia. Mi disse: Armà, scrivi una poesia. E allora io
scrissi: Viva viva il nostro duce / che
con sé porta la luce / e viva il federale Amato / che di gioia ci ha colmato.
Poi a una diecina d’anni cominciai a andare appresso alle cugine e allora
scrissi una poesia che cominciava così: Saltano
macchie, siepi e rupi / per sfamare i loro lupi /quando è notte e tutto tace /
coi begli occhi di fornace / vanno in cerca del lungo bruco / eccetera. Non
ricordo più bene.
Tu che scuola hai fatto?
A Fondi avevo fatto la seconda
e la terza elementare. Andavamo da un certo frate che c’insegnava a leggere e
scrivere. Si chiamava padre Giacomo. Poi
non ci andammo più perché dovevamo pagarlo. Poi è venuta la guerra. E quand’è
finita il paese è tutto un mucchio di polvere. Tutto bruciato, polverizzato.
Non s’è trovato più un documento. Niente. Fondi è stata incenerita proprio. Ci
rifugiammo nella chiesa di S. Francesco vicina al monastero. Ciascuno si
arrangiava alla meglio. Poi è morta mamma. Mio padre è un essere umano che meriterebbe
di essere ucciso mille volte. Prima di tutto ha caricato mamma di figli: mia
madre a 33 anni ha fatto 12-13 figli. Ne sono sopravvissuti 8. Appena arrivati
gli americani, noi per due o tre giorni andavamo per il paese rovistando per
trovare qualcosa da mangiare. Un giorno zia Santina, la moglie di un fratello
di mamma buon’anima, ci ha detto: Guarda Armà, noi usciamo. Mi raccomando Antoniuccio. Qui c’è una bottiglietta col
biberon. Ogni tanto ci date da bere. Il fratellino, di cui non abbiamo neppure
una foto, dormiva dentro un tiretto del comò. Quello era il lettino suo. Noi
ragazzi per andare in giro - mangiucchia di qua, rubacchia di là - l’abbiamo
dimenticato. Quando siamo tornati, stava morendo.
La guerra tu l’hai vissuta da vicino, vero?
Cavolo. Da una fessura tra le rocce ho visto i marocchini violentare
le donne. Uno di loro portava dei campanelli. Faceva un gesto così e si
riunivano. Quando siamo sfollati, ci siamo andati a rfugiare per quasi un anno
in cima al Cocoruzzo e abbiamo abitato dentro la capanna, dove c’erano prima i
somari di Angellella Franco, la padrona di quel pezzo di montagna, questa
ciociara. Più sopra ancora c’era la
Crocetta di Campo di Mele, un altro paesetto. Si chiamava così perché era un incrocio. Lì
c’era Elvira, che veniva sempre a vendere i fichi a Fondi. Era tutto un
incrocio di montagne, di vallate. Noi ragazzi ci mettevamo sulle soglie delle
capanne, che erano fatte di pietre con il tetto di paglia. Ci mettevamo a
vedere gli aerei che sfrecciavano nella vallata di Fondi e quasi rasentavano le
nostre capanne. Per noi era un divertimento. Sotto, dove c’erano sette sorgive
d’acqua, non potevamo scendere. Qualche
volta gli aerei per venire a bombardare si schiantavano vicino alle rocce.
Avranno scaricato più di mille bombe. Noi le chiamavamo fasuleglie, cioè fagiolini.
Se uno volesse.. Io potrei scrivere
ancora un altro libro intero sulla guerra.
Hai notato un cambiamento tra il periodo di prima e
quello di dopo la guerra? Tu, la tua famiglia avevate simpatia per i fascisti o
no ?
Uno non ci pensava neanche.
Eravamo tutti fascisti allora. Dicevamo:
Churchille, Churcillone/ se ci esce
l’America/ ci pensa il Giappone. Dei
comunisti niente, noi ragazzi non sapevamo niente. Io so solo che il primo
partito che hanno fatto a Fondi era la Lista
Castello, perché c’è il Maschio come a Napoli, più
piccolo però. Erano fascisti e democristiani insieme. Io a Latina ho fatto due
nottate dentro perché, per avere un pezzo di pane, insieme ad altri ragazzi vendevo
senz’autorizzazione L’Unità, Rinascita,
Noi donne. Da piccolo uno che
capisce? Tu sei povero, hai bisogno di
un posto di lavoro, di un letto caldo. Hai bisogno di una mamma. Noi non
avevamo più niente.
Ma poi ti sei avvicinato ai comunisti fino a prendere
la tessera? Perché?
Sì, io presi la prima
tessera, quella della Fgci. Me l’ha firmata
Berlinguer. Lo feci per avere
un’esistenza, un’identità. Io non potevo mai essere democristiano, perché ero
figlio di poveri. E vedevo i comunisti vicini ai poveri. Io non avevo casa, non avevo niente. Papà
aveva una casa che aveva pagato 75 lire. Ci hanno buttato tre bombe sopra. C’era
disoccupazione. Tutti erano disperati. A Fondi ci abbiamo la scalinata Santa
Maria. E lì si mettevano i disoccupati. Allora tu sei esasperato contro
qualsiasi forma di ricchezza. Vedessi l’arroganza di certi padroni bastardi.
Cominciai a andare ai comizi, ai cortei. Dai comunisti più che un aiuto
mi aspettavo una giustizia. Il lavoro per tutti, ad esempio. E poi l’amicizia.
Ma così non ti mettevi contro altri amici tuoi che erano fascisti?
Sempre una lotta è stata. Io
sono stato sempre, diciamo, un po’ opportunista. Tutti lo siamo. Il padre di un
mio amico s’è iscritto a un partito per far operare d’appendicite una sorella.
I ricchi hanno sempre odiato i poveri. Io però ho
sempre dato più adito [importanza] alle cose non politiche. Quando mi faceva
comodo andavo anche dai preti a chiedere. Ero uno sfaticato, lassista. Non mi è
mai piaciuto essere [inquadrato]. Ho fatto sempre il doppio gioco. A Milano poi
sono stato coi capelloni, ma ho votato
sempre comunista. Il fatto del voto è sacro.
Ma la tua famiglia era fascista o no?
Mio padre era analfabeta.
Anche lui era un opportunista. Mi diceva: nella vostra vita non fatevi mai le
tessere. Era fascista, ma la tessera io non ce l’ho mai vista. Aveva un’idea e
basta. Papà era crudele. Gli uomini di
prima erano tutti come lui: un bicchiere di vino, la zappa. Però è stato in Germania. C’era andato col
sindacato fascista. Ha lavorato sulla Bahn’hof,
sulla ferrovia tedesca. Non poteva più tornarsene e se ne scappò. Lì ha
imparato la lingua. Lui a cinema non c’è mai stato. E s’arrabbiava con chi ci
andava. Diceva: vai a cinema a vedere le stesse cose che fai tu? Sono soldi
sprecati. La mia era una famiglia di
poveracci. Mamma sempre un po’ malaticcia.
E ‘sto lazzarone e disgraziato di mio padre. Far fare a una donna tutti
quei figli!
Dopo la guerra che cosa hai fatto?
Ho vissuto 8 anni a Roma. Vi scappai con mio fratello
Enio, un mezzo delinquente, uno scapestrato. Prima si è messo coi partigiani,
poi coi tedeschi, poi per soldi si era messo con gli americani per andare a
cercare i tedeschi. A Roma è andato ad attaccare i manifesti al Vaticano e lo hanno sbattuto dentro a
Regina Coeli per un paio di mesi. Era
amico del Gobbo del Quarticciolo, che era contro la legge. Non uccideva. Rubava
per mangiare. Era un giustiziere. Aiutava i poveri e perciò alcuni lo
chiamavano Zorro. Quando uno non aveva il lavoro, lui andava e diceva: se non dai il lavoro a questo, io ti
faccio fuori. Nella banda c’era lui, poi c’era Pezzancule, Pisciasotte, che
l’avevano operato male e si pisciava sempre
addosso. Ci faceva parte anche mio fratello Enio. Un regista francese ci
ha fatto anche un film su tutta questa storia. In quel periodo lì io ero guaglione. C’avevamo una fame. Noi
stavamo con zio Michele, figlio del patrigno di mio padre, che era impiegato
all’assistenza postbellica. Lui ogni tanto prendeva in casa un nipote. Lo
svezzava lì. E così ha fatto con Enio. Poi con me e man mano con altri. Era uno zozzone. C’aveva un paio di donne e
poi maltrattava la moglie, che faceva la serva al Testaccio, lavava i piatti,
stirava e il marito le portava via anche quei quattro soldi che guadagnava. Mio
zio aveva anche una fabbrichetta di varechina ai Parioli e io stavo al negozio
con mio fratello Enio. La varechina ce la facevamo noi. C’era «la Bianca», «marca Bianca». Prendevamo dei vasconi e
compravamo l’estratto per fare la varechina in questi vasconi. Poi coi tricicli
andavamo girando per Roma. Eravamo talmente affamati, che man mano che
prendevamo una lira, la rubavamo per comprarci la pizza. Mio zio diceva:
prendete trenta litri di estratto per allungare la varechina nei vasconi. E noi ne prendevamo la
metà. Tutt’acqua era. Alla fine è fallito. Poi io trovai un portafoglio di un
signore. Glielo riportai. E quello: che cosa vuoi? Dammi un lavoro. E allora
sono finito in piazza Epiro, vicino a Cinecittà. Facevo il custode, il servotto
anche degli attori. Ho conosciuto Bob Hope. Poi Enio ha buttato un gatto dentro
la gabbia dell’ascensore e mi hanno cacciato
dal lavoro. Vivevo così. Poi ho preso a leggere di tutto. Salgari, ad
esempio. Poi ho letto Atte, la liberta di
Nerone e mi sono innamorato follemente del
latino. Sono sempre stato innamorato della roba antica.
Ma come ti procuravi i libri?
Chiedevo ai vecchi. A quei
tempi là si andava in giro a raccogliere
le cicche e poi le davamo ai vecchietti di Piazza del Popolo. Roma io la
conosco a millimetri perché l’ho girata per
tanti anni. I libri li chiedevo a chiunque. Ci avevo una faccia tosta. Facevo
amicizia con uno, con un altro. Andavo a portare la varechina nelle case.
Parlavo. Guagliò, di dove sei? Ero già piazzato. Avevo 14 anni ed ero molto bello e sempre a caccia
di donne.
Quali libri hai letto? Quali ti hanno appassionato?
A me piace soprattutto il Don Chisciotte. Lo leggerei due volte
l’anno. Tutto ho letto.
Beh, dimmi di cos’è fatto ‘sto ‘tutto’…
I promessi sposi li ho letti quattro volte. Don
Chisciotte della Mancia l’ho letto in italiano e in spagnolo. Il tuo ex collega del Molinari, Merisio, lui
mi ha portato il Don Chisciotte in spagnolo. Ho letto quasi tutto. Ad esempio I fratelli
Karamazov di Dostoewskij. Poi
il Dictionnaire
philosophique di Voltaire in francese, che adesso sto leggendo un’altra
volta. Poi ho letto per 4 anni la
Bibbia. Lì è un
macello, un marasma. Ci sono tanti personaggi. È meravigliosa per questo. A me
piace molto l’immagine dei contadini che stanno tirando l’acqua dal pozzo,
quando arriva Mosè. Va letta tutta la
vita. E anche se la leggessi per mille anni, la leggerei sempre come un ameno
libro di lettura. Non come un libro sacro. Ho letto tanto in francese. A me
piaceva Notre Dame di Hugo, cose
toste. Poi Madame Bovary di Flaubert,
Balzac, Zola, Baudelaire.In italiano di Dante so dei canti a memoria. Ho letto pure I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, il Decamerone. Poi ho studiato inglese e anche
qualche po’ di russo. Le lingue mi sono
sempre piaciute, perché mio padre è stato in Germania più di vent’anni e quando
veniva, gli chiedevo di portarmi una grammatica. Sono stato sempre un po’
esaltato dalla lingua tedesca. Stern l’ho letta per tantissimi anni. Il tedesco
l’ho portato avanti fino adesso. E in Germania ci sono andato d’estate per vacanze.
Mi stavano quasi prendendo al porto a fare l’interprete di tre lingue e mi
davano 6 milioni al mese. Però c’erano i bambini [figli], dovevo lasciare tutto.
Ho letto pure Umberto Eco. M’ha scandalizzato. Dice più Fontamara. Cristo si è
fermato ad Eboli mi dice mille volte più di Eco. E poi più leggevi e più
approfondivi. Qualsiasi cosa. Cominci una frase e subito viene una rima. È come
se ci fosse un dialogo. Poi come giornali leggo Settimana enigmistica, sempre quella. Sono settant’anni.
Prima si chiamava NET, Nuova Enigmistica
Tascabile. Io quando prendo le parole crociate, guarda qua… Io tutta la
vita avrei dovuto farlo questo, ogni settimana: ritaglio le foto degli attori e
l’appiccico qui, faccio un archivio.
E che ti serve avere tutti questi volti? Perché
t’interessano tanto?
Niente, curiosità. Perché
amo tanto la cinematografia. A Roma andavo in tre cinema gratis: Arcobaleno,
Iovinelli – dove vedevo sempre Claudio Villa - e Brancaccio. Perché mio zio
andava in giro a portare le pizze con la bicicletta. Mi portava con lui. E così vedevo i film senza pagare.
Ma le parole crociate perché ti appassionano?
È una rivalsa. Quando prendo
la Settimana
enigmistica, faccio le più difficili.
Ti appassiona lo studio dei nomi, dei dizionari,
dell’enciclopedia?
Sì, sì. Perciò poi faccio
tutto questo casino quando scrivo, è come un fiume, come dici tu. Mi sono
insaccato, nutrito di tutto, senza fare distinzioni.
Ma le preferite di queste letture?
Don Chisciotte. Perché sono io. Pensa a Dulcinea. Quella era una contadina che
sceglieva i ceci in mezzo all’aia e lui si esaltava. Secondo me, lui si sarebbe
accontenato anche di una strega pur di avere vicino una donna. Aveva un animo
grande. Era pazzo, no? Con la sua immaginazione rendeva bella anche una donna
brutta. Don Chisciotte era secondo me
malato. Non esiste poeta contento. Come fa uno felice ad essere poeta? Se non
soffri, non puoi scrivere. Il poeta è uno che vive ammollato nella sofferenza. La
sofferenza mi piace. Quando non c’è sofferenza, non c’è niente.
E ne parlavi con qualcuno delle tue letture?
Con i ragazzi del Molinari.
Ho fatto il bidello lì per 35 anni. In mezzo a tutta quella gente lì parlavamo
di letteratura, di lingue. Ne parlavo anche con qualche professoressa. Poi ho
fatto il liceo classico al serale. Quando c’era il greco e qualche materia che
c’interessava, stavamo in classe. Se no, con una scusa, ce n’andavamo. Ci
davamo l’appuntamento al cinema di piazza Argentina con sei, sette studentesse. Ubriacature, sigarette… Ero
esaltato. Sono stato sempre un po’ femminaro,
diciamo. Ma adesso son vecchio, brutto, non ce la faccio più.
E se dovessi presentare a dei giovani I promessi sposi che gli diresti?
Beh, c’è l’arroganza di don
Rodrigo che è fondamentale. Poi c’è il perdono quando sta per morire. In tutti
i personaggi mi trovo io. Anch’io sono
don Rodrigo. Tutti sono don Rodrigo. Nessuno è buono. Crediamo in Dio quando ci
fa comodo. Siamo opportunisti, vigliacchetti.
Ma da Roma a Milano come e quando sei
arrivato?
Dopo la guerra ho fatto
diciotto mesi il soldato a Como e Varese. Poi sono tornato a Fondi. Poi sono stato
da una zia di Monterotondo. E lì questa qui voleva appiopparmi la figlia Adele.
Si arrivò al punto che mi fecero ubriacare e mi misero la figlia a fianco nel
letto. Stavano preparando persino la dote. Io non dico niente a nessuno e di notte me la filai a
Monterondo città, in una pensione di due vecchie, una più cattiva
dell’altra. Lì conobbi Peppino, che
faceva il camionista e che per poco non mi metteva sotto, mentre io con altri stavo giocando con una palla di pezza per
strada. Io dovevo pagare 8 mesi a questa pensionante, ma non avevo una lira ed
ero disoccupato. E quell’anno fece otto volte la neve e a Monterotondo vennero
i lupi. Peppino mi porta a casa sua. Qui
una volta ad un battesimo di una vicina venne invitata una ragazza, Ersilia. Ci
siamo conosciuti e con lei sono andato in Abruzzi, a Lanciano, nei pressi di
Pescara. Lì mi sono sposato con lei. Poi Peppino e la sua famiglia, che mi
avevano ospitato, si trasferirono vicino
Vergiate, nella zona di Varese. Siccome ci scrivevamo, andai anch’io da loro e feci venire Ersilia e i due bambini che
intanto erano nati. Poi il fratello di questo Peppino, che faceva l’autista di
un miliardario, ottenne una casa in via Brembo. E noi avemmo un locale al
quarto piano di questa casa. Dopo qualche anno sono usciti due locali al piano di sotto. Ma eravamo senza lavoro e
non abbiamo potuto pagare l’affitto. È venuto l’ufficiale giudiziario, ci ha
fatto il sequestro e siamo andati a finire in Via Oglio, nelle case degli
sfrattati. Abbiamo fatto tre anni lì e poi abbiamo fatto la domanda per le case
popolari. E così abbiamo avuto questa dove abitiamo adesso, in Via Chiari.
Te la sei vista brutta a Milano?
Quando stavo in via Brembo -
era il 1960 - andavo raccogliendo le bottiglie vecchie con un amico di Ersilia.
Poi ho fatto il muratore. L’avevo fatto da sempre. Anche a Fondi bambino zappavo l’orto. Poi mi sono
iscritto all’IstitutoTecnico Svizzero, una scuola per corrispondenza, e mi hanno
dato il diploma di capomastro edile. Ho lavorato in piazza Frattini, dove
abbiamo fatto un quartiere. Poi mi sono ammalato. Sono stato operato
d’ulcera. E nel 1966 entrai al Molinari
come bidello, dove sono restato fino alla pensione. Ma prima per quattro anni
ho fatto l’impiegato amministrativo alle Macchine Edili, che allora era in
viale Ortles. Mi avevano preso come telefonista. Poi era morto il capo e volevano fare me capo
di questa ditta di due, tremila persone. Ma un ruffiano andò a
dire che avevo la tessera della CGIL e
mi cacciarono via. Così, non trovando niente, un amico di mia moglie mi suggerì: ficcati nella scuola. Feci ‘sta
domanda. Io ero invalido civile per le operazioni che avevo subito. Ero
diventato proprio un fuscello. Ebbi il primo posto e arrivai al Molinari.
E in mezzo a tutti questi movimenti, quand’è che hai
cominciato veramente a scrivere?
Le poesie da sempre. A scrivere di più ho cominciato sotto le armi.
Ma in effetti ho scrivere molto nelle case degli sfrattati di via Oglio. Lì ci
avevo del materiale accumulato, tutto un malloppo di carte scritte a macchina,
un pot-pourri. Lì scrissi il primo
libro intitolato L’uomo sbagliato.
Ma Tra fascisti
e germanesi, il libro che ti pubblicò Feltrinelli nel 1973?
Feltrinelli ha messo questo
titolo a un pezzo tratto da L’uomo
sbagliato. La storia è andata così. Ti ricordi Pozzolini, quel professore d’italiano toscano
che era venuto anche in televisione con Enzo Tortora ed insegnava al Settimo
Itis? Lesse ‘sto malloppone di 7-800 pagine. Lui curava una rivista lì da
Rizzoli. E disse: portalo a Rizzoli. Rizzoli stava
quasi per pubblicarlo, ma lo trovarono troppo comunista, troppo rosso. E allora
Pozzolini dice: mandalo a Feltrinelli che hanno una collana Franchi narratori. Mi chiamano alla Feltrinelli e questo dottor
Tagliaferri ha preso praticamente solo un pezzo di questo libro mio e gli ha
dato lui il titolo. Goffredo Fofi ci ha fatto un’introduzione. Quello è un
libro che a farci un film…Poi lì alla
Feltrinelli mi dissero loro stessi: fai
un libro sulla scuola vista da un bidello; e io ho scritto Scuola serrata, ma non me l’hanno preso. Al Molinari c’era un certo
Willy, che lavorava con questo editore
Ghisoni e nel 1975 mi
hanno pubblicato Scuola serrata. Poi
a mie spese ho pubblicato a Lanciano nel 1993 Frau Magda. L’ultima donna. Adesso non m’interessa più pubblicare.
L’altro inedito che ho scritto Il gran
deluso l’ho sta leggendo anche il prete di qui che mi ha detto: Tu sei
furbetto. Si è accorto che sono un po’ doppiogiochista in politica.
Facciamo un attimo l’elenco preciso dei tuoi inediti…
È un bel problema, perché io
comincio, poi lascio lì. Non ho mai dato un ordine. Non ho pensato neppure a
scrivere la data sui libri che ho fatto rilegare.
Però un po’ d’ordine bisogna farlo. Vediamo…Dopo L’uomo sbagliato scritto tra il ‘65 e il ‘70 hai terminato Lo sbandato attorno al ’72. Poi dal 1975 all’’80 hai fatto Il gran deluso. L’ultimo comunista, mentre Dissacrazione e
verità raccoglie i racconti di tutta la vita e Una vita a pezzi (circa 260
pagine) tutte le tue poesie. Hai poi da parte – qui ben rilegati nella tua
libreria – una estrosa guida turistica, Hamburg zu fuss [Amburgo a piedi], nata dalle tue visite a quella città, e i due
libri sui dialetti: un Vocaromanzo, cioè romanzo-vocabolario,
dove analizzi le parole del dialetto di Fondi
collegandole alle vicende della tua biografia [romanzata] e un Vocabolario del dialetto abruzzese che hai depositato nella biblioteca civica a
L’Aquila. Infine stai lavorando adesso a Gente senza faccia, che definisci un
poema. Se dovessi riassumere la trama di quest’ultimo libro?
Tutti i falliti si
riuniscono dentro questa capanna di paglia (mi rifaccio al tempo della guerra…)
e ognuno racconta le sue beghe e i suoi
guai di una vita da barboni. Per me è un capolavoro, una specie di decamerone
che potrei intitolare anche I ragazzi del
capanno.
Ma questi libri li hai fatti leggere ad altri?
Adesso non sto bene. Non ci
penso neppure a farli leggere, però chi legge le mie robe le trova buone e io
vado avanti a scrivere. Adesso mi sono
infervorato e sto lavorando. È tutta una trama a flash-back. Parlo di
tre donne però che alle fine è una sola
ed è mia sorella Elisabetta. E io m’invento che il marito la spara. E vado
avanti…
Parlami un po’ del lavoro che fai quando scrivi…
Qui è un macello. Io invento
tante cose. Non mi servo delle parole che hanno scritto gli altri. Ho il mio
linguaggio. Sono capriccioso, scapigliato diciamo. Scrivo come voglio. Delle
date proprio non me ne curo.
I temi che mettono in moto la tua fantasia quali
sono?
La guerra è fondamentale. La
donna ovviamente per tutti gli uomini è il perno attorno al quale girano tutte
le fantasie, perché la donna fa i figli. Poi l’amore, l’affetto. La religione
niente, per me non esiste. Gli altri? Mi occorrono. Ho bisogno di tutti. I
parenti? Io li sparerei. Non m’interessano, ci dò poco peso. E poi i luoghi: Fondi, Napoli. Roma no. Più i
luoghi sono disastrosi più [accendono la mia fantasia].
Fai differenza tra quanto scrivi in poesia e quanto
scrivi in prosa?
Bah, non penso. Per me è
tutto uguale. Mi metto a scrivere lì. Io sono stato sempre di questo parere –
lo dicevo anche ai ragazzi al Molinari – che se Dante avesse scritto la Divina commedia in prosa, come ha fatto Boccaccio, questa sarebbe davvero un capolavoro. Io
insomma tengo più per la prosa. Nella poesia la rima condiziona.
Tu hai continuato per tutti questi anni a scrivere da
solo, senza incoraggiamenti. Perché lo fai?
Questa è una domanda a cui
non è facile rispondere…
Ti accontenti di scrivere per te?
Purtroppo che fai? Mica ti
puoi imporre. È come la morte. Io certe volte ho paura della morte, di rimanere
solo. Però mi dico: se gli altri muoiono, tu perché non vuoi morire? Nasciamo e
muoriamo. Se uno non nasce, non muore. Tu una volta mi hai chiamato ‘scrittore
clandestino’. Non mi va.
Volevo intendere irregolare, non riconosciuto…
‘Clandestino’ non mi piace,
perché tiene qualcosa di delinquente. Uno che fa qualcosa contro la legge. Tu
non mi fai essere famoso e io te lo faccio apposta. Io non direi ‘clandestino’.
Io mi sento un innamorato della saggezza.
Hai mai pensato di ripulire, aggiustare,
sintetizzare, tagliare questa tua vasta produzione scritta?
Se dovessi fare una cosa del
genere, farei crollare questo castello. Meglio lasciarlo così. È uscito così
dall’anima, dal cuore, dalla tua volontà. Tu desideri una cosa e la ottieni. Io
quando scrivo una cosa e mi piace…. È inutile stare a cambiare.
Ma il lavoro dello scrittore non è anche quello di
ripulire, aggiustare?
Non mi piace, non mi
piacerebbe. Tu mi consigli di ripulire, rendere meno rozzo questo linguaggio? Io
voglio mantenerlo così. Non può venire meglio. Non accetto i limiti. Al circolo
dell’Arci qui sotto casa hanno messo una targhetta: ingresso riservato agli
iscritti. Io non ci vado più.
Tu sei vissuto sempre in questi ambienti proletari e sottoproletari...
Sì, mi sono messo sempre
coi poveracci, i più analfabeti, i più
malati.
Ti sei trovato in mezzo a loro…
No, lo facevo apposta. Non
mi piace di essere meglio degli altri. Ho paura di far male agli altri. Ad
esempio, io sono capace più di un altro a scrivere, ma non glielo dico, non mi
vanto.
La
differenza la vedi, ma non vuoi
metterla in risalto? Vuoi mantenerti solidale con lui?
Sì, solidale.
Ma coi bidelli del Molinari com’erano i rapporti?
Nessuno mi poteva vedere,
perché ero diverso. Non perdo tempo a chiacchiere…
Eri più amico dei i ragazzi però?
Sì, ma era anche pericoloso.
Si andava a mangiare e a bere in quello sgabuzzino lì. Li mandavo dal
pizzicagnolo a prendere il vino per conto di Armando, un amore di vino
calabrese. Quante volte eravamo ubriachi. Io nun saccio chi santo mi ha aiutato
a tirare la pensione. Quante ne ho combinate!
Gennaio 2006
Appendice:
brani scelti
Da Tra fascisti e germanesi ( Feltrinelli, Milano 1973, pp.69-72)
La vita sul Cocuruzzo, sebbene da cani, correva lo stesso.
lo avevo tanta paura della guerra. Avevamo fame ma Antoniuccio cresceva bello
come il sole. Anche se si voleva scendere al paese per procurarci del cibo,
dovevamo riunirci perché sarebbe stato un suicidio esporsi alle bombe
americane. Sembravamo costretti a morire di fame dentro quei tetri tuguri di
paglia e sassi. Ma un mattino, l'ultimo di gennaio, sbottammo. Il cielo era
accappato di nero; elefanti di nuvole gonfie d'acqua s'alzavano avvolgendo gli
aranceti. Io, zio Leandro, Lucino, Elio e una giunta di mortidifame calammo al
paese, con la speranza di trovare qualcosa da mangiare. Scendemmo piano piano
per i sinuosi sentieri che affogavano nel verde del monte. Zio Onorio si unì a
noi. Proprio quando arrivammo ai piedi del Cocuruzzo, scivolando sulle erbe e
sopra i sassi freddi, il cielo si coprì di macchie dell'antiaerea tedesca e una
squadriglia di apparecchi incominciò a seminare bombe e pallottole a tutto
spiano dentro le rocce e sopra i giardini d'aranci. Ci mettemmo al riparo e i
tedeschi, che lungo la costa stavano all'aperto, sparirono nelle grotte.
Uno di loro, però, non fece a tempo e
col fucile si mise a sparare nel cielo. Non rimase in piedi per molto e gli
aerei se n'andarano vincitori versa il mare. Avvicinammo il tedesco, e
allibiti ascaltamma le sue ultime parale: "Non perderemo la guerra, il
Fűhrer ha detto che abbiamo l'arma segreta, non fa nulla che voialtri italiani
ci avete tradito, vinceremo lo stesso, gli americani li butteremo. a
mare." E piangeva con la mano. affondata nel buco che teneva sotta la
pancia, aspettando di morire.
Giungemmo presso il paese a sera inoltrata: avevamo paura
dei bombardamenti e d'essere rastrellati dai tedeschi. Erano due mesi che non
ci azzardavamo a calare a Fandi. Il prablema era di entrare in paese senza che
nessuna ci vedesse. Tentammo con cautela di aprirci un varco attraverso i
comandi tedeschi. C'era nell'aria la natizia che i liberatori americani fossero
oramai quasi alle parte, ma stentavamo a crederci; di cose allora se ne
raccontavano tante. Giungemmo dentro il paese. Per i vicoli non latrava un
cane, la paura ci straziava. Papà e zio Leandro ci precedevano camminando sotto
gli architravi pericolanti e noi li seguivamo, sbattendo i denti per il freddo
e per la fame. Poi mio padre se ne ritornò sul Cocuruzzo, accanto a mamma. A
Fondi, le strade, i viali e le piazze, non esistevano più; il paese s'era
trasformato in un immane cimitero senza croci. Percorremmo via Vetruvio Vacca
senza incontrare una traccia di vita. Non ci perdemmo d'animo, specialmente zio
Leandro, il quale, vista l'impossibilità di raccattare qualcosa da mangiare,
propose di andare a vedere cosa mai era rimasto delle nostre case distrutte.
Lui davanti e noi dietro, varcando come iene le macerie e i tritumi, arrivammo,
stanchi e con la lingua fuori, sulle rovine della mia casa. Il ritratta di
mamma e papà pendeva ancara affogato nella polvere dall'unica lembo di muro
rimasto all'impiedi. Zio Leandro ebbe l'ardire di staccarlo dal muro senza
procurarsi un graffio. Ritratto alla mano, mio zio avanzava barcollani,
gettando gli acchi di qua e di là, coi capelli canuti rizzati in testa come un
riccio. Noi lo seguivamo al calcagno.
Non finimmo di arrivare in piazzale Portella, che ci
sorprese un bombardamento. Per fortuna non c'erano mura in piedi che ci
potessero crollare sopra le spalle. Ci appiattellammo panciaterra sotta il
marciapiede e restammo a baciare il selciato, finché i bombardieri si
allontanarono. Ci rizzammo da quella posizione e ce la squagliammo.
Attraversammo il Ponticello e andammo. a piazza Cardinale. Ci imbattemmo in un
certo Cazzomatto, che con la sua faccia di puttana c'invitò a andargli
appresso promettendoci di farci guadagnare il pane. Lo seguimmo e ci condusse
dentro una casa dove, frugando ben bene, trovammo un barile di ulive all'acqua.
Poi scendemmo in cantina, dentro la quale a stento si riusciva a tenersi in
piedi. La trovammo piena di botti sforacchiate dalle palottole tedesche e
fasciste; era tutta allagata di vino, con sopra uno strato di moscerini che si
poteva tagliare a fette. Riempimmo delle damigiane e le nascondemmo per poi
portarcele sopra la montagna. In altre cantine, c'era della gente che andava
tastando i muri e i pavimenti a caccia della roba murata. Facevano man bassa di
tutto. Noi li guardammo e prendemmo solamente da mangiare. Ci fornimmo di
fagioli e di fichisecchi, mentre gli altri rapinavano gioielli, biancheria,
vini. lo nel contempo guardavo Lucino, che sturava una bottiglia di liquore e
l'assaggiava, e poi apriva e assaggiava l'altra ancora, fina a sbronzarsi. A un
bel momento gli cominciò a girare la testa, ma lui non capiva ragione:
assaggiava e rideva come uno scemo. A Elio venne un accesso di tasse (lui ne ha
sempre sofferto), Lucino faceva il matto ragionando con l'alcool e io mi
lamentavo che volevo mamma. D'improvviso, mentre carichi di mangiare e bere
stavamo attraversando una lunga cantina scarrubbata, per portarci sulla strada
e andarcene, passarono dei tedeschi. Ai gravi passi teutonici, sotto
l'intimazione di zio Leandro, ci nascondemmo dentro le botti vuote. Elio tossì
ancora e zio Leandro lo assalì con una valanga di improperi e minacce a bassa
voce. Ma nessuno ci udì. Caricammo il vino, i fagioli e le olive e finalmente
partimmo.
La Notte di Natale (1982)
E' la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E' la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.
Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E' la notte di Natale.
L'individuo se ne va piangendo il male
che tiene all'addome, e d'allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d'amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: "E' la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini."
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce. .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
"Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
- gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?"
La gente del bare l'attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E' la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box, bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! - pensava il gringo fra sé e sé - un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale."
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?"
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: "Andiamocene,
Peppe!
Non lo vedi? E' stato sempre così scemo e ignorante
quellolà! "
E la folla, noncurante, se ne va.
E' festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell'interno del viale.
E' la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell'ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
"Signore, ma lei forse è ammattito?
- gli spara l'edicoloso - E' la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale."
Eppoi all'illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: "Cretino!"
E' umiliato il tale.
"Ma questo zozzo mandrillo è proprio un
deficente?"
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E' la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l'illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E' la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l'ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell'essere astrale?
E' la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell'animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E' la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch'è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l'apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l'altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E' la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.
IL BRIGANTE
SILVESTRO da Dissacrazione e verità (raccolta inedita di racconti, pag. 135)
Nella Selva Vetere, chiamata così per via che viene tagliata
dal fiume Vetere, metatesi di Tevere, che nasce dal Monte Perito e muore nel
lago di Fondi, una volta vi abitava un pastore di nome Silvestro. Aveva
ventidue anni allora; giovane tozzo, brutto e analfabeta, aveva sempre il
fucile retrocarico a portata di mano, se lo poneva accanto al letto quando la
notte dormiva. Camorrista e maffioso. Anche se aveva sempre ucciso e rapinato,
lui, a botto di schioppettate, faceva dire di sé: «Fino adesso ha voglia la
gente di parlare, Silvestro ha ventidue anni e nessuna condanna sopra le
spalle, non ha mai fatto del male a nessuno».
Lo temevano tutti. La Selva Vetere era il
suo dominio; nei suoi lugubri ventidue anni aveva campato sempre di prepotenza.
Era un uomo solo, errante, anche attraverso i Monti Aurunci, dietro alle sue
pecore, ogni tanto ne violentava una, facendola [s]trillare come una rigazzina
di primopelo. Emarginato dalla vita, egli non amava nessuno; sapeva soltanto
che ogniqualvolta si piccava una cosa in testa, manteneva sempre la sua
promessa fatta: «O ti piglio, o mi subisci, o ti fai subire; o mi dai la carne
tua, o sennò io me la piglio». La sua famiglia era degna di lui medesimo,
strafottente rapinosa, vendicativa e faidale. Costoro dominavano colla
minaccia, sempre sul chivalà e sicuri, col fucile in braccio, carico e
inesorabile. Erano incapaci di pensare al bene, votati al male. Capacissimi di
rapinare e uccidere a sangue freddo, nonché di bruciare le capanne, pagliari,
rozze dimore di quei poveri selvaroli.
La losca famigliaccia cantava sempre: «Se ci rompete le ossa
dentro ci trovate il rancore, se ci tagliate le vene, dentro ci trovate il
veleno, se ci spaccate le cervella, dentro ci trovate il delitto; se ci aprite
il cuore, dentro ci trovate una pietra».
Dietro la capanna, dimora della terribile famiglia, ci stava
una grotta ignorata da tutti. Un giorno però questa venne scoperta da un
boscaiolo, certo Polo, che lo fa subito presente alla Legge: «Sì, c'era puranco
un mio collega con me; abbiamo visitato la grotta, calando giù per una scala a
chiocciola. Dentro a essa ci stava un letto, tre o quattro sedie, un tavolo e
tante armi moderne». Silvestro non agiva mai solo, aveva con sé un'ombra, il
suo angelo custode e braccio destro Bellone, giovane diciannovenne, truculento;
capigliatura corvina e riccia su capoccia arietina. Naso grifagno, occhi rossi,
spupillati, bocca di caprone con zanne di lupo. Alto quanto un cerro, bestiale
erotico maniaco sessuale ermafroditico. Come Bellone catturava qualcuno,
maschio o femmina, bambino o vecchio alla luna, li violentava con stupro. Una
volta lo ficcò dietro a un vitellino redo[2]
appena nato, facendolo morire dissanguato. Questo animalone si sarebbe fatto
uccidere per il brigante Silvestro, il pastore invaghito della bella contadina
Driade, che dimorava in una pagliara della medesima contrada della Selva
Vetere. La fanciulla Driade, bella come una mela cotogna, alta, florida, sana,
colle carni fresche e sode e il seno, pieno, pieno di melloniche tette, assai
schiattacore.
In famiglia erano lei, il babbo, la madre, la sorellina e il
fratello Gildo, ragazzo robusto, alto e bello da mettere invidia. Non molto
lontano dalla loro capanna abitava lo zio Corbo, uomo austero e forte, che
anche lui, purtroppo, subiva angherie, rapine e minacce dal bandito Silvestro.
Ciò non ostante, quest'uomo non osò mai lamentarsi, nè lui nè gli altri
selvaroli, temendo rappresaglie dal bandito Silvestro, questo rozzo bandito
camorrista, guappodicartone e mafioso. Silvestro sicché aveva il cuore in
frittura per la bella contadina Driade, che di lui non voleva sapere proprio il
bel resto di niente, facendo anzi capire in mille modi e maniere al giovane
bandito, che le loro future nozze erano un'utopia. Intanto il bandito tutte le
volte che la vedeva lavorare nei pantani, sotto il cielo azzurro di Fondi,
scendeva da cavallo e la pigliava selvaggiamente:
«Vieni qua! Mi hai messo la febbre perniciosa nel sangue, ti
desidero assai assai, con tutta l'anima; perché non vuoi darmela? Ebbene,
allora ti sbardello sopra la terra spoglia e nuda e te lo ficco tuttoquanto
dentro la quadraccola. Vedrai come ce lo tengo il pistolone lungo e ciotto; ti
fo addicreare una frega, ti azzaffo e affogo la zunna di saponella, ti voglio
montare con tutta l'anima, come fa il montone colla pecorella. Ti impre[g]nerò
facendoti partorire un bel marmocchio tutto nostro. E che, sei la regina di
stocazzo, tu, che non puoi fare in culo con me?»
Le ripulse della bella Driade inasprivano sempre di più
l'animo di Silvestro. Siccome in ogni colluttazione che intercorreva tra i due
amanti, era sempre la femmina ad avere la meglio, data la sua consistente forza
e statura, Silvestro, allora, che era una mezzasega, rispetto a lei, la
minacciava con gli occhi di brage: «Ah, non molli? Nèh! Mi piglierò vendetta
crudele su di te e sopra alla tua famiglia, vedrai, non finisce così, per me
non è ancora notte! Non vuoi il mio amore ardente, allora io, un giorno o
l'altro, come è vero Santrocco, te la faccio pagare a caroprezzo».
I due malviventi, Silvestro colla sua spalla destra Bellone,
una mattina sentivano un rotolare di carretto sopra la via. Si trattava di un
certo Fiore. Appena i due banditi gli arrivarono a tiro, Silvestro lo fece
scendere dal mezzo. Gli chiese: «Compare Fiore, dove si trova adesso Driade?».
«Alla pagliara della zia Bortone. Ci sta pure la sorella
Emma, col cugino Tommasino con lei, in tutto sono quattro cristiani».
«E indove si trova Gildo, il fratello di Driade?». «E'
andato a fare delle compere a Fondi». «E suo cugino Aristide?». «E' allettato
per malattia, compare Silvestro». «Allora puoi andare pei fatti tuoi!» gli dice
il bandito «Grazie, tante, grazie anzi delle notizie che mi hai fornite,
addio!»
Il Fiore, col suo carretto ripigliava la via per Fondi.
Adesso i due briganti, Silvestro e Bellone, sicuri di avere
campo libero, si versarono nella Selva Vetere. «Caro Bellone!» gli diceva ora
Silvestro «Gildo è ito a Fondi, a fare delle spese, un uomo mancante; Aristide
si trova a letto malato, un altro uomo di meno; Driade quindi non ha difensori
di sorta, è sola; non c'è persona al mondo che la possa aiutare. La sua vecchia
zia Bortone col cuginetto Tommasino, che giacciono con lei nella pagliara, non
contano. Siamo quindi gli unici dominatori del campo, i padroni, possiamo agire
a nostro pieno piacimento, nessuno ci disturberà. Però sono ancora le sei, ora
in cui tutti lavorano; le mandrie non sono ancora rientrate nelle stalle; i
vaccari, i bufalari, sono ancora sparpagliati per la Selva Vetere. Poi,
chi zappetta, chi dissoda e ricaccia i pantani, sotto questo sole che brucia,
come l'anima mia, per la bellissima Driade. Se ci muoviamo adesso e ci sentono,
possono accorrere a difenderli, bisogna, per questo, aspettare, ancora non è il
momento. Siamo cauti! Calma, perché vendetta sia fatta; non portiamo prescia,
il gatto per la fretta fece i gattini ciechi. Verso la notte spaccata i villani
dormono,[nessuna] persona ci vedrà a quest'ora, tranne la Luna d'argento». «Aspettiamo
allora insino alle undici, Silvé!» consigliava il Bellone; queste cinque ore
poi so' io come fartele passare».
I due briganti penetrarono nella grotta nascosta, dove
abitava la puttana di Bellone, colla quale Silvestro si sollazzava bonobono,
ficcandoglielo ripetute volte nella zunna e altrove alla presenza del suo
bracciodestro Bellone. Eppoi ancora con Bellone bevvero, mangiarono, cantavano
e chiavavano insieme colla scrofa, chi davanti e chi didietro simile ad
accoppiamenti animaleschi.
Arrivate finalmente le undici, i due manfrini, lasciata la
puttana, sazia nella grotta, pigliarono a camminare verso la capanna nella quale
dormiva Driade, la sorella Emma, la zia Bortone e il cuginetto Tommasino.
Nessuno si trovava a quell'ora sveglio per la Selva Vetere, pareva
che nel mondo non ci fosse più creatura vivente. Tutto taceva. Tale silenzio
veniva rotto soltanto dal canto lugubroso degli uccelli di rapina e dal secco
brusìo di qualche foglia che tombava vorticosa perterra in quell'amara notte.
Si udiva però il losco rumore dei loro passi guardinghi che procedevano inverso
il malaffare. I due briganti arrivarono davanti alla pagliara, la cui porta,
che pareva una feritoia di casamatta, era serrata. Silvestro vi andò vicino,
dopo avere fatto svegliare i quattro, prese a minacciare col suo fucile:
«Allora, Driade, ti ostini ancora a non volermi?»
«No!» [s]trillava lei «Meglio la morte!»
«Ma checosa ti ho fatto io di male? Io ti voglio solo per
sposa, ti voglio bene!»
«No!» lei lo respingeva! «Uccidici piuttosto tutti e
quattro!»
«Esci fuori
dalla capanna, Driade!» Silvestro cominciava a innervosirsi. «Ti voglio per
moglie. Perdonami se quella volta ti ho ferita col pugnalotto!»
«No!» insisteva lei caparbia: «E' meglio morire».
«Porco della Ma. e Dio ansemble!» bestemmiava Silvestro con
assai raccapriccio. «Allora, Bellone, taglia e prepara la legna».
Il brigante tagliava frasche e l'ammucchiava intorno alla
capanna. Dopo pure tronconi lignei in croce piazzava in faccia alla porta.
Ammannito
tuttoquanto perbene, Silvestro disse: «To,Bellone! Afferra questo fucile e
spara qualora si avvicinasse qualchuno!».
Silvestro appiccò quindi il fuoco alla pagliara, da dove
presero a uscire urla laceranti. Driade, alla quale si stavano già incendiando
i panni addosso, cedeva pietosamente: «Silvestro! Sposo mio di letto, aprima
[sic] la porta, spegni il fuoco; vengo fuori, esco e mi ti sposo, non bruciare
pure la zia coi miei fratellini! Essi sono innocenti, non ci entrano niente coi
nostri peccati».
Driade metteva la testa fuori dalla paglia della capanna,
mentre Silvestro gliela respingeva dentro, dicendole:«E' troppo tardi oramai!».
La pagliara bruciava e il fumo strozzava la gola dei quattro
le cui carni venivano di già escoriandosi e brasandosi sotto la furia delle
crepitanti lingue di fuoco.
Driade scongiurava. In quel mentre a un galoppo seguiva una
figura oscura. «Chi è che disturba?» si chiedeva Silvestro «Tu intanto,
Bellone, resta di guardia alla capanna, fino a che non è diventata un mucchio
di cenere; io vo' a vedere chi è».
Il brigante partiva, fucile spianato, pronto a uccidere.
Scorgendo Gildo, fratello di Driade, che veniva da Fondi, gli alluccò: «Ma
perché giungi a questa ora di notte? Sei un cazzo di ostacolo e ti frapponi
come un bastone nodoso fra i miei piedi. Ma il destino si deve compiere in
tutti i modi.Vattene, Gildo, da dove sei venuto, sennò ti sparo!».
Il giovane, ignaro di quelle fiamme, legava il suo cavallo,
senza rendersi conto del pericolo che stava per correre. Come poi stava aprendo
bocca, Silvestro gli deflagrò il primo colpo, facendo così cilecca. Gli disse
allora: «Non ci fa una minchiazza, Gildo, ti metti in corriva con me? Vuoi
ficcare il naso nelle mie cose? Il mio schioppo è un duebotte, l'altra
cartuccia è già in canna: banghe!». Gli uccide il cane, che guaì pietosamente,
con uno strascico che echeggiava per tutta la Selva Vetere. Gildo
l'aveva capito che nella pagliara della zia Bortone stava morendo bruciata la
sorella cogli altri innocenti. Siccome Silvestro stava ricaricando il duebotte,
egli pensò:«Qua io, in tutti i modi, sono un uomo morto; loro due, Bellone
armato di accetta e Silvestro di fucile. La capanna brucia, vorrei andare ad
aprire la porta, per salvare mia sorella Driade cogli altri. Ma mi faranno
fuori. Eppoi chi saprà mai chi fu l'artefice che aveva bruciato queste quattro
anime innocenti? Quindi, l'unico testimonio sono io». Gildo eccosì monta a
cavallo e corre dallo zio Corbo, che saputo del fattaccio, lo consiglia di
avvertire la legge.
Compiuta la strage, mentre Driade colla zia Bortone e i due
bambini finivano di carbonizzarsi nella brage della capanna, Silvestro e
Bellone s'allontanavano dal focaraccio accostandosi alla dimora dello zio
Corbo. Là giunti, i due banditi lo invitavano ad apparire sull'uscio. Il povero
disgraziato, prendendoli colle buone, affinché suo nipote Gildo facesse a tempo
ad avvertire la legge, apparve sulla porta della sua capanna, scalzo e in
camicia allungo. Allora Silvestro gli scaricò il fucile addosso, facendolo
cadere secco in una piscolla di sangue. Poi con Bellone si diedero alla
macchia. Di lì a poco il povero Corbo moriva. Intanto erano giunti sul posto del
rogo gli aiuti chiamati da Gildo, ma nulla poterono fare per le povere vittime
oramai incenerite. Silvestro e Bellone vissero dapprima uniti,eppoi come videro
che ciò era pericoloso, si separarono. II bandito Bellone uscì dalla Selva
Vetere e Silvestro viveva nascosto nella grotta. Dopo, in seguito a delle
spiate, Bellone venne catturato e giudicato. Venne condannato a tre anni di
reclusione. Anche Silvestro fu giudicato dalla stessa corte in contumacia venne
condannato all'ergastolo. Da quel giorno di Silvestro non si ebbero più
notizie; dopo si venne a sapere che aveva vissuto tre anni nella grotta
nascosta colla puttana di Bellone. Silvestro scappò in Abruzzo, qua dove cambiò
due volte nome, con falsi documenti si sposava ed ebbe due figli. 21 anni dal
fatto, mentre Silvestro saltava da un tetto all'altro di una casa, cadde sulla
strada dabbasso, rompendosi tutte e due le gambe, infine fu catturato e morì
marcio dietro alla cancella.
GLI SPALLATI (da Dissacrazione e verità, raccolta inedita di racconti, p.122)
Una notte
molto piovosa, due ladroni, Alfredo, detto Alfréghete, e Rafaèle, bussarono
alla porta di una casetta di pietrame. Un vecchio, di nome Ciancone, buon
cristiano, anche che sarebbe potuto essere maomettano o islamita, somigliava a
un brutto cane. Dimodoché il vecchio Ciancone, aprendo l'uscio, rispose: «Ecco,
vi alloggio per codesta notte, ognuno di voi può insediare [sic] una di queste
due brandine; io dormirò nella stanziola allato. A una condizione, però, badate
bene: siccome ho mutato proprio adesso le lenzuola e dunque sono pulite e
sfioccate, se a qualcuno di voi venisse la splendida idea di cacare a letto,
io, oltre alla sorpresa che gli farò, gli taglierò anche le palle».
«Vabbene,vecchio!» ghignarono Alfredo con Rafaèle.
Eccosì,
dopo essersi benbene rimpinzati di mangeria e beveraggio, i due ladroni si
spasero a letto. Nonappena presero sonno, il gero Ciancone, arrampicatosi come
un formicolone in cima al soffitto, molto alto, di quella stamberga, fissava
alla capriata maestra, quattro carrucole, sulle quali scorrevano funi, alle cui
estremità erano saldati robusti ganci, che avevano il compito di acchiappare il
capo e il piede delle due brande.
Sistemato il macchiavellico impianto, il vecchio Ciancone
scese a terra, cucinò una bella cazzarola di polenta, la fece rifreddare e,
scoperchiate le lenzuola ai due dormienti, ne piazzò loro cinque mescoli per
culo, eppoi, spense ogni luce e issò le due brande sulla tettoia.
Il mattino dopo, appena i due si risvegliarono, volevano calare
giù dai lettini, quando Alfréchete, sentendosi il sedere inquacchiato,
palpeggiò la polenta e, credendo che fosse cacca, bisbigliò impaurito: «Uéh,
Rafaèle, toh, che guaio all'oscuro, mi sono cacato sotto». «Anche io!» tremò
Rafaèle «adesso il vecchio Ciancone ci sega le palle. Allora, sa che nova c'è?
Facciamo così, al mio via, sgusciamo dalle lenzuole e tagliamo la corda,
alziamo i tacchi, prima che il vecchiardo si svegli. Dài! via! filiamo!».
Simile a una cascata d'acqua, Alfredo con Rafaele piombarono
sul pavimento, spaccandosi così la noce del collo, le cornaccia e l'osso del
culo, sacro.
A questo punto il vecchio Ciancone con una tronchese tagliò
loro le palle e le gettò ai cani.
Il cane è come l'uomo, può essere cattivo e può essere buono.
Ciao, ho letto il tuo estratto e l'ho trovato molto interessante.... mi resta un dubbio... quando parli di faidale cosa intendi??? È un tuo neologismo o è estrapolato da altre fonti?? Lo trovo molto arguto come escamotage linguistico. Grazie
RispondiEliminaScusami non avevo messo l opzione notifica... se ti va rispondi a questo messaggio grazie!!!!
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